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Contro i rischi di una Brexit scomposta, l’industria del vino e degli spirits fa fronte comune: tra inflazione crescente e consumi ancora più che stabili, da “Wine2Wine”, gli sforzi del settore per limitare i danni prima dell’“ora zero” del 2019

Italia

Che la si consideri una rivendicazione di sovranità nei confronti di una burocrazia sovranazionale fumosa e distante, o un inspiegabile momento di follia che ha collettivamente attanagliato un popolo tradizionalmente pragmatico e misurato, la Brexit è un dato di fatto, a maggior ragione a valle del recente annuncio da parte del Primo Ministro May che il Regno Unito è pronto a pagare quanto dovuto per procedere all’abbandono dell’Unione Europea. In attesa del fatidico 29 marzo 2019, quindi, che cosa è lecito aspettarsi per il futuro prossimo del secondo Paese importatore di vino a livello globale, oltre che quello dove l’Italia è il primo Paese europeo in volume, complice anche lo tsunami Prosecco? A rispondere, da “Wine2Wine” (www.wine2wine.net), la Master of Wine britannica Sara Abbot, che ha esordito rimarcando il fatto che il Regno Unito è così appassionato al nettare di Bacco che “se ci si limitasse a consumare quello che produciamo ogni anno, secondo i calcoli durerebbe circa mezz’ora”. Una passione che ha retto magnificamente al caos conseguente al referendum, pur nel contesto di un’economia che “tiene”, ma non cresce, mentre i consumi, finanziati spesso con a credito, fanno salire l’inflazione, in un settore economico che, indotto incluso, movimenta circa 3 miliardi di Sterline. Comprensibile, e forse anche auspicabile, quindi, che le figure senior del mondo del vino e degli spirits “si stiano aggregando in una serie di network informali, anche tramite l’opera della Wsta [Wine and Spirits Trade Association, l’organizzazione di categoria del settore in UK, ndr], e stiano facendo sentire la loro voce a livello della commissione parlamentare sugli alcolici, a livello governativo e così via”. E, a quanto pare, i loro sforzi stanno ottenendo risultati concreti: posto infatti che il vero disastro da evitare, stando così le cose, sarebbe “l’abbandono del sistema comunitario che sovrintende la tracciabilità e il monitoraggio di beni sui quali non vengono imposte tariffe - lo Excise and Movement Control System, o Emcs, ndr - dato che renderebbe molto più complesso evitare casi di contraffazione e di sofisticazione alimentare, e si stanno già vedendo dei risultati, uno dei quali è rappresentato anche dalla decisione di non aumentare ulteriormente le accise sugli alcolici”, come era stato per l’appunto richiesto dalla Wsta in modo da “graziare” i consumatori britannici in tempo per lo shopping natalizio. Se le misure proposte nel budget di marzo fossero state approvate, il peso delle tasse sul totale delle spese di Natale in vino, birra e spirits sarebbe stato pari al 53,5%, contro il 51% attuale. Segnali piccoli, forse, in un contesto epocale, ma comunque degni di nota per le attività di lobbying dell’industria, perché indicano l’attenzione della politica britannica per un settore tutt’altro che secondario per l’economia del Regno Unito, e non solo...

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