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“Fine Wines”, il futuro del vino italiano, che nel primo mercato del mondo, gli Usa, in piena “premiumization”, è già posizionato ai vertici del segmento più redditizio del business enoico. A dirlo l’indagine di Nomisma per l’Istituto Grandi Marchi

Italia
Fine Wine, futuro del vino italiano, che è al top del segmento in Usa, indagine Istituto Grandi Marchi e Nomisma Wine Monitor

Il recente sorpasso della Francia sull’Italia nelle esportazioni Usa è un piccolo segnale d’allarme, eppure i vini del Belpaese sono in salute, e soprattutto sono ben posizionati, ai vertici tra i vini stranieri, in quel fenomeno ormai consolidato che è la “premiumization”, guidata da una crescita della cultura del vino in quello che è il primo mercato del mondo, e dove di conseguenza aumenta la ricerca di prodotti di qualità. Emerge da un’indagine di Istituto Grandi Marchi, realtà che mette insieme 19 tra le più importanti cantine del Belpaese (Alois Lageder, Argiolas, Biondi Santi Greppo, Ca’ del Bosco, Michele Chiarlo, Carpenè Malvolti, Donnafugata, Ambrogio e Giovanni Folonari Tenute, Gaja, Jermann, Lungarotti, Masi, Marchesi Antinori, Mastroberardino, Pio Cesare, Rivera, Tasca d’Almerita, Tenuta San Guido e Umani Ronchi, che mettono insieme un fatturato di 540 milioni di euro, di cui il 61% all’export) e Nomisma Wine Monitor, che ha condotto un’indagine su 2.400 consumatori dei Stati federali maggiori importatori di vino italiano, New York, Florida, New Jersey, California, che (insieme al Texas) mettono insieme il 44% dei consumi di vino negli States. Un campione importante, se si considera che un terzo delle bottiglie stappate in Usa è di importazione.
“Gli Stati Uniti al pari di molti altri mercati internazionali stanno vivendo una rilevante fase di “premiumisation” dei consumi di vino” dichiara Denis Pantini, responsabile di Nomisma Wine Monitor - basti pensare che, nell’ultimo quinquennio, il prezzo dei vini fermi imbottigliati importati negli Usa è cresciuto di quasi il 10%, passando da 5,32 dollari al litro ai 5,82 del 2017, così come, nell’ultimo anno, le vendite di vini fermi nel canale off-trade con prezzo superiore a 20 dollari a bottiglia sono cresciute di quasi l’8%, contro il 2,4% dei vini con prezzo inferiore”.
E in effetti, il posizionamento dell’Italia nelle fasce “premium” in termini di quota sulle vendite nel canale off-trade è tra i più alti in riferimento ai vini di importazione. Nel caso dei vini rossi fermi, a fronte di una incidenza complessiva del 7% sulle vendite totali, la quota di mercato supera l’8% in tutte le fasce di prezzo superiori ai 20 dollari a bottiglia; ma non solo: arriva a superare il 10% nella fascia di prezzo da 31 dollari e oltre. A questo proposito è interessante evidenziare come, in virtù di questo “alto” posizionamento, il prezzo medio dei vini rossi italiani venduti nell’off-trade è in linea a quello dei rossi francesi (12,3 dollari contro 12,4 dollari). Anche nel caso dei vini bianchi fermi a fronte di un’incidenza sulle vendite della tipologia del 13%, la relativa quota di mercato arriva al 42% nella fascia 20 - 24,99 dollari a bottiglia”.
In particolare, emerge che il 54% dei consumatori di vino americani dichiara di preferire vini di produttori noti, famosi; questa quota cresce fino al 67% tra i “frequent user”, tra coloro cioè che consumano vino almeno una volta a settimana; il vino viene scelto soprattutto in base al brand (il 18% indica questo fattore come principale criterio di acquisto), e l’importanza del brand aumenta fino al 26% tra i criteri di scelta dei “fine wines”.

Che, per i consumatori americani, sono quelli prodotti da un’azienda ben consolidata e con esperienza. E se il binomio “fine wine” e “made in Italy” riscuote grande successo negli Stati Uniti, con 1/3 dei consumatori di vino che indica “Italia” quando pensa ai produttori di vini di alta qualità, emerge che Barolo, Amarone e Brunello di Montalcino i “fine wine” italiani più citati spontaneamente, così come Piemonte e Toscana sono le Regioni che vengono più spesso ricordate, seguite da Veneto e Sicilia.
Nel dettaglio, secondo i consumatori divino, un “fine wine” è tale quando la reputazione del prodotto viene prima di quella aziendale (77%), la qualità prima dei volumi (68%), è associato ad una azienda che presidia di più i mercati (65%) e che ha una consolidata esperienza (64%). Tra i fattori più importanti per definire un “fine wine”, prima di tutto vengono le qualità organolettiche (25%), poi il brand (17%), il prezzo (13%) e anche i giudizio di guide social e riviste (13%).
A bere i “fine wines”, poi, sono soprattutto i “frequent user” di vino (67%), che hanno un reddito familiare alto, oltre i 100.000 dollari annui (54%), e un titolo di studio elevato (49%), ed “esperti” di vino (43%). Interessante vedere che “millennials” e “generazione X” sono consumatori di fine wine in egual misura (43%). Al momento della scelta di acquisto, ancora, il criterio che conta di più è la marca di una cantina molto nota (26%), po il consiglio di amici e rivenditori (12%) e la presenza di un marchio biologico (11%), che incide quanto il packaging, e più dei premi e riconoscimenti sulle guide (9%) e della pubblicità su social, tv e riviste (9%).
Interessante anche guardare i luoghi dove si bevono “fine wines”: il consumo tra le mura domestiche (43%) è parti a quello del fuori casa, dato dalla somma di ristorante (30%) e wine bar (13%).

Altro aspetto interessante: se tra gli “heavy user” di vino il 35% la Francia è ritenuta il Paese straniero con i migliori “fine wines”, contro il 28% che dice Italia, la classifica si ribalta se si guarda al complesso dei consumatori, che dicono Belpaese al 34%, e Francia al 31%.
E questo si riflette sul mercato, dal momento che se sono gli Usa il Paese da cui provengono i vini di alta gamma consumati più spesso nell’ultimo anno (28,4%), a ruota segue l’Italia (27,8%), con la Francia staccata di diversi punti (19,9%).

Un aspetto positivo, dunque, per un’Italia che si conferma anche leader per quota di mercato in volume tra i vini stranieri, con il 34% del totale dei vini fermi, e il 32% degli spumanti (con una crescita fenomenale rispetto al 13% di 10 anni fa).
“I dati che abbiamo raccolto indicano la via maestra al vino italiano: la tendenza positiva deve ricordarci di lavorare con grande determinazione ed efficacia alla ricerca del corretto posizionamento di pregio per il nostro prodotto, lavorando sempre più per la crescita del valore perché i volumi discendano da un corretto approccio al valore e non da una logica di price competition - afferma il presidente dell’Istituto Grandi Marchi Piero Mastroberardino - il primato sui volumi non può essere un tema da celebrare a prescindere, dato che i volumi senza il valore portano allo sgretolamento della filiera per mancanza di capacità di remunerare gli investimenti effettuati”.
Ma le prospettive per un futuro luminoso ci sono tutte, se si considera che il mercato americano è ancora in crescita, e dove il vino rappresenta ancora solo il 10% dei consumi di bevande alcoliche, nonostante un balzo del +28% in anni, a quota 33 milioni di ettolitri. E che l’Italia sembra avere un enorme vantaggio competitivo (al netto della frammentazione del sistema produttivo e dei ritardi nella promozione e sull’Ocm, ndr) rispetto ad altri Paesi importatori, dato dal fatto che il nostro Paese gode di una reputazione molto elevata presso il consumatore americano. Il vino italiano piace soprattutto quando rispecchia l’Italian style, che è collegato, secondo gli intervistati, ai concetti di bellezza, moda e lusso. Senza contare che il consumatore americano, in generale, ama bere soprattutto vini di territori specifici (56%) e ama sperimentare novità (72%). Caratteristiche che il vino italiano, più di ogni altro nel mondo, può offrire, e sulle quali deve, gioco forza, deve investire.

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