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A che punto è la viticoltura in Russia? In espansione, ma ancora con le idee poco chiare. Ecco, in sintesi, il parere del professor Attilio Scienza reduce da un viaggio di approfondimento della realtà viticolturale ed enologica dell’ex Urss

Italia
Attilio Scienza

Ormai nel mondo tutti i grandi Paesi fanno vino e puntano, in qualche modo, ad affrancarsi dall’egemonia enoica dell’Europa. Dagli Stati Uniti a tutto il Sud America, dal Brasile all’India, per arrivare alla Cina, passando per Sud Africa, Nuova Zelanda e Australia, la viticoltura è diventata praticamente possibili e realizzabile in ogni luogo. Manca solo la Russia. Ma anche nell’immenso Paese che unisce Europa ed Asia le strategie più recenti guardano allo sviluppo della vite anche in questi luoghi, solo apparentemente remoti. Ne abbiamo discusso con il professor Attilio Scienza, che, proprio di recente, ha compiuto un viaggio nell’ex Urss, per studiare ed approfondire il livello della viticoltura e dell’enologia locale.
“La viticoltura russa - spiega il professor Attilio Scienza - non è per adesso una grande viticoltura. Poggia su 40/50.000 ettari, piantati in Crimea, una zona climaticamente più adatta, anche se c’è una piccola produzione sul Don, ma lì la vite rischia spesso letteralmente la vita a causa del grande freddo. È, quindi, in Crimea, dove sostanzialmente si produce tutto il vino russo. Peraltro il grosso del consumo di vino in Russia è consentito dall’importazione di vini spagnoli che poi vengono “naturalizzati”, la legge lo permette, basta che ci sia una minima quantità di vino “autoctono”, e solo una piccola parte è fatta completamente in Russia”.
Questo, evidentemente, è lo stato di cose ereditato dell’ex-Urss, che privilegiava quantità a qualità e che prevedeva una produzione pressoché indistinta di vino. Oggi, però, come molto altro in Russia, le cose sono decisamente cambiate. Basti pensare alla forte spinta del Ministero dell’Agricoltura russo, allo sviluppo della viticoltura, che ha visto crescere la superficie vitata nazionale ad una media di 3.600 ettari l’anno, e di ben 6.000 nel solo 2016 e che dovrebbe raggiungere, nel 2020, un’estensione di 140.000 ettari coltivati a vigneto, almeno secondo i piani “autarchici” dello stesso Presidente Putin. Evidentemente, accompagnato anche da uno sviluppo delle cantine che oggi sono rappresentate da grosse realtà come Massandra e Abrau-Durso, per fare un paio di esempi, e da un gruppo di produttori di dimensioni contenute, per adesso poco organizzati.
“Certo, la Russia di oggi vorrebbe fare una viticoltura ed un’enologia diversa da quella del passato - prosegue il professor Scienza, Ordinario di Viticoltura all’Università di Milano - ma ci sono tre direttrici possibili e tre criticità incombenti: usare l’impostazione tradizionale, fatta di vini comuni, guardare ad una produzione a base di vitigni internazionali o scegliere le varietà locali, che in Russia sono molte, incrociando cultivar di provenienza mediterranea e caucasica. Infatti, la viticoltura russa è addirittura più antica di quella italiana. Importata dai Greci, ha subito anche l’influsso della viticoltura caucasica, specie nella zona della Crimea, che è quella che continua ad essere la più interessante. Inoltre - aggiunge Scienza - c’è il problema di trovare una tipologia tipica per la Crimea. Per ora c’è soltanto grande individualismo tra le aziende produttrici ed in più non c’è ricerca e sperimentazione del patrimonio ampelografico russo e quindi è difficile anche conoscere quale siano le varietà migliori per impostare un lavoro serio in funzione della specificità dei vini che, forse, sarebbe possibile ottenere da questi vitigni locali. Insomma ancora siamo lontani dal capire cosa sia il vino di Crimea”.
Per adesso, dunque, la situazione è tendenzialmente fluida e, come è accaduto nel resto del Nuovo Mondo enoico, a prevalere sono i modelli importati, anzi “l’approccio oggi è quasi esclusivamente legato ai modelli che vengono da fuori. Basta pensare a come la produzione spumantistica russa, che aveva un certo penso anche in epoca Socialista, oggi sia interamente in mano a tecnici francesi. Con quantitativi non secondari: tra i 5 e i 6 milioni di bottiglie di Champenoise e 15 milioni di Metodo Charmat”.
Per il consumo non di massa, al di là dei cali recenti imputabili soprattutto a problemi che con il mercato del vino nulla hanno a che fare (vedi crisi dell’Ucraina), i consumatori benestanti della Russia guardano sempre con attenzione alla Francia e all’Italia. “I nostri vini, godono di grande favore in Russia e a Mosca (che da sola fa 20 milioni di abitanti, mentre il mercato russo del vino potrebbe contare su almeno un centinaio di milioni di futuri acquirenti) ed è meritoria conclude Scienza - l’attività di Società di import specializzato come “Simple”, che nella capitale russa lavora molto il vino italiano anche dal punto di vista della formazione. Insomma, non dobbiamo avere timore dei vini russi”.

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