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Non bastano creatività e talento in cucina per il successo di un ristorante, ci vogliono la cura e l’attenzione della sala. Al centro di Identità Golose con Will Guidara (Eleven Madison), Josep Roca (El Celler) e Massimo Bottura (Osteria Francescana)

Non basta uno chef creativo e talentuoso ai fornelli per decretare il successo di un ristorante, è fondamentale che il piatto, qualunque piatto, venga valorizzato a dovere da chi lavora in sala, dal maître, che deve accogliere e mettere a proprio agio i clienti, al sommelier, che attraverso i giusti abbinamenti deve esaltare quanto fatto in cucina. Certo, non è un concetto del tutto nuovo, al contrario, la più importante delle guide, la Michelin, ha da sempre tra i suoi criteri, il giudizio sulla qualità del servizio, sull’atmosfera, sugli arredi e sulla location, fondamentali per la conquista delle tanto agognate stelle.

Nonostante ciò, la fama di maître e sommelier non è neanche paragonabile a quella di chef e pasticceri, segno che, anche nel mondo della comunicazione, qualcosa non funziona ancora alla perfezione. Ecco perché il tema della sala, e quindi dell’accoglienza, è tornato prepotentemente sulla scena, spinto anche dalla recente “svolta” della “50 Best Restaurants”, che nel 2017 ha istituito un riconoscimento ad oc, l’“Art of Hospitality Award”, sostenuto dalla griffe del Trentodoc Ferrari. L’ultimo confronto ha avuto come cornice Identità Golose (www.identitagolose.it), il Congresso di Cucina ideato e diretto da Paolo Marchi, che ha ospitato dei veri e propri fuoriclasse: Will Guidara, direttamente dal miglior ristorante del mondo secondo la “50 Best Restaurants”, l’Eleven Madison park di New York, Josep Roca, plenipotenziario di sala e cantina a El Celler de Can Roca, da anni ai vertici della ristorazione mondiale, Massimo Bottura, grande tra i fornelli dell’Osteria Francescana, ma con una sensibilità particolare per la sala, e Laura Price, deputy editor della “50 Best Restaurants”.
Tra aneddoti e punti di vista, il segreto è quello di non mettere mai i propri egoismi e i propri piccoli problemi davanti alle necessità del cliente. Come ricorda Laura Price, “la gente cerca un’esperienza più casual, amazing. Avventurosa come può essere un pit stop a Lima da Virgilio Martinez”. Proprio l’esperienza eccitante è al centro dei pensieri di Will Guidara, che fa notare come, proprio sull’onda di premi e stelle, “gli ospiti arrivano super excited già solo per essere lì. Non devi convincerli a divertirsi, sanno già che lo faranno”, anche perché “non puoi far amare una cena a chi non è pronto ad amarla. Per vivere bene una cena devi approcciarla nel modo giusto”.
Più articolato, invece, il ragionamento di Josep Roca, che parte da un concetto di per sé semplice, il successo di un ristorante, da El Celler de Can Roca a qualsiasi altro, non può prescindere dal sorriso: di chi prepara il cibo, di chi lo porta in tavola e di chi lo mangia. Alla fine dell’esperienza, gli ospiti devono lasciare il ristorante con la gioia dipinta sul volto, perché quello è il segno della soddisfazione e l’ospitalità raggiunge il suo fine solo se il cliente è soddisfatto. “È necessario essere disponibili perché è brutto dire di no. L’essere umano non è mai preparato a una risposta negativa”, racconta Josep Roca. “La cena deve essere una coreografia emozionale, un gioco sensoriale che non si deve dimenticare. Si deve percepire intelligenza corporeo-cinestetica, tecnica, esistenziale, musicale; ci deve essere piena sintonia tra cliente, cucina e sala”. Per questo, bisogna evitare i conflitti seguendo la passione, anche, almeno nel caso de El Celler, c’è una psicologa che segue l’equipe per sondarne le emozioni nella convivenza, l’istruzione, le sensazioni, la gestione della persona, la cucina, la famiglia, la vita.
Nulla viene lasciato al caso, perché se il personale è soddisfatto e preparato, riuscirà a capire chi è l’ospite e quale il suo stato d’animo, quale la sua provenienza e quali le sue abitudini, quale il tipo di alimentazione che preferisce. L’errore più grande? Lavorare per la propria vanità. L’attenzione deve essere per chi è seduto a tavola, per qualsiasi segnale che può arrivare da un cliente, così da cogliere al volo espressioni di ansia, disgusto, paura o rilassatezza e felicità. Si deve instaurare, tra ristoratore ed ospite, un rapporto umano, fondato su rispetto e tolleranza, che portano a qualcosa di nuovo, alla “neuro-gastronomia”. Sempre, ovviamente, puntando a standard alti, anzi, altissimi, che passano, conclude Josep Roca, per “semplicità, sacrificio e un po’ di talento”.

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