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“La vitivinicoltura è una storia che va raccontata ai giovani, perché ha coinvolto migliaia di persone che rischiando vita e lavoro, ne hanno fatto la più grande rivoluzione di successo dopo l’Unità d’Italia”: parole dello storico Zeffiro Ciuffoletti

“Una storia che va raccontata, ma prima ancora studiata, lo dico sempre ai giovani, perché ha coinvolto le scelte ed il lavoro di imprenditori agricoli grandi e piccoli, migliaia di persone che hanno rischiato e lavorato rimanendo attaccati alla campagna, anche quando la stragrande maggioranza l’abbandonava, e l’Italia da Paese agricolo diventava Paese industriale. I numeri per spiegare questo grande processo di trasformazione e il successo della viticoltura, non sono tutto, ma tuttavia contano. Al momento dell’Unificazione nazionale, nel 1864, la prima statistica del Regno riportava che l’Italia esportava 322.841 ettolitri di vino prevalentemente da taglio, mentre la Francia esportava sopra 3 milioni di ettolitri di vini di qualità, che dominavano il mercato mondiale. Ecco perché, dopo l’Unità d’Italia, la vitivinicoltura è stata la più grande rivoluzione di successo del nostro Paese”. Lo ha detto lo storico Zeffiro Ciuffoletti, in una “lectio”, tenuta ieri a Montalcino, dove ha ricevuto il Premio “Città di Montalcino” per la Storia della Civiltà Contadina 2017.
“La politica, l’agricoltura, il vino, il paesaggio, sembrano studi diversi, ma - ha sottolineato il professore di Storia Contemporanea dell’Università di Firenze, membro dell’Accademia dei Georgofili - non è così nella storia italiana. Penso a grandi statisti come Bettino Ricasoli e Luigi Einaudi, tra le figure più celebri ma non le uniche, che quando non si occupavano di politica, si dedicavano al vino e all’agricoltura nelle proprie tenute. Dovrebbe essere così ancora oggi: il vino non è una bevanda qualsiasi, ha radici antiche nelle nostre terre, e l’attenzione degli storici, come dei politici, alle sue vicende, deve essere continua. Il vino non vuol dire la stessa cosa da sempre: cambia, e c’è sempre stato posto nella sua storia per i cambiamenti, di gusto, di tecnologie, oggi climatici, ai quali occorre intelligentemente adattarsi, con lo studio ed il ragionamento, e non con l’intolleranza”.
“Fu lo stato di assoluta inferiorità - ha ricordato Ciuffoletti - a spingere alcuni imprenditori e proprietari illuminati a dare impulso in avanti alla vitivinicoltura italiana, a partire proprio dalla Toscana con l’esempio di Ricasoli nel Chianti, di Vittorio degli Albizi a Pomino e Nipozzano, e con Emanuelino Fenzi tanto lodato dall’enologo Giacome Tachis per i 25.000 vitigni francesi impiantati nella Fattoria di Sant’Andrea in Percussina a San Casciano Val di Pesa. Le vere rivoluzioni procedono lentamente, ma costantemente, cioè richiedono sforzi e impegno di generazioni di proprietari, di agricoltori, di tecnici e maestranze, nonché scelte politiche appropriate. Dopo 150 anni l’Italia è diventata il primo produttore di vino al mondo” (con 41,1 milioni di ettolitri, nonostante l’annata 2017, che sta già passando alla storia come la più difficile dal dopoguerra ad oggi; stime Assoenologi, ndr), davanti alla Francia (37,2 milioni di ettolitri), ora scavalcata dalla Spagna (38,3 milioni di ettolitri). Allora come oggi, “conta la produzione dei vini, ma più conta il commercio, l’esportazione. Era questa la sfida (di Ricasoli come di Tachis), e per questo occorre produrre vini di qualità, garantiti dalle denominazioni di origine ma anche dal brand. Nel 2016 il comparto dei vini italiani ha registrato un fatturato di 12 miliardi di euro con 310.000 aziende e 1,25 milioni di addetti. Il valore delle esportazioni in continua crescita raggiunge oggi 5-6 miliardi di euro. Questo è tanto più importante in quanto la domanda interna è in continua flessione. Basti pensare che nel 1967 all’epoca del miracolo economico il consumo medio pro capite era di 106 litri. Oggi si è appena ad un terzo. Finora gli italiani hanno saputo raggiungere mercati nuovi, ma la sfida è sempre più dura”.
“I grandi vini italiani devono avere le radici pulsanti nel territorio ma la mente rivolta la mondo - ha aggiunto Ciuffoletti che ha ricevuto il Premio dal Comune di Montalcino e dal Consorzio del Brunello, con il “Centro di Studi per la Storia delle Campagne e del Lavoro Contadino”, guidato da uno dei massimi studiosi mondiali dell’alimentazione Massimo Montanari - il Chianti Classico ha chiuso le vendite nel maggio del 2017 con una crescita del 58% su base mensile. Il vino italiano è stato in grado, come altri prodotti di prestigio del made in Italy, di reggere alla crisi. Il Chianti, per esempio, dal 2008-2009 ad oggi ha registrato un andamento sempre positivo, con una crescita di oltre il 50% con più di 39 milioni di bottiglie collocate in oltre 100 mercati del mondo. Il Brunello di Montalcino, alfiere dei grandi vini italiani nel mondo, celebra quest’anno i 50 anni delle origini del Consorzio. Fu fondato nel 1967, nella fase di rilancio della vitivinicoltura insieme al miracolo economico e alla fine della mezzadria. In questi 50 anni il Brunello ha inellato successi uno dietro l’altro. Nel 1968 le bottiglie prodotte erano solo 13.000 per poco più di 25 produttori, nel 1986, meno di 20 anni dopo, si era passati a circa 1,45 milioni, nel 2016 si sono raggiunte 9,1 milioni. Nel 1966 a Montalcino gli ettari coltivati a vite erano appena 115, solo 64 specializzati e 51 promiscui. Oggi si è arrivati a 2.100 ettari”.
“Qualcuno - ha detto lo storico - pensa che questa intensità della vitivinicoltura muti il paesaggio. In realtà il paesaggio italiano, e toscano in particolare, è stato fatto più dall’uomo che dalla natura, come scrisse nell’Ottocento Carlo Cattaneo. Sarà l’uomo, ancora oggi, a cercare gli equilibri e le compatibilità. Non si dimentichi però, che la viticoltura ha salvato i paesaggi collinari toscani, così delicati negli equilibri idro-geologici, minacciati dall’abbandono. Mantenere il bel paesaggio della mezzadria è un pensiero bello e impossibile, perché la mezzadria è finita da mezzo secolo. E la storia non conosce la marcia indietro se non come catastrofe. Dagli anni del catasto fascista (1930) ad oggi, la Toscana ha perso 413.000 ettari di terre coltivate, mentre ha da secoli circa 400.000 ettari di boschi, spesso ma coltivati. Nelle terre abbandonate avanza il selvaggiume”.
“Se la vitivinicoltura si sviluppa non si può bloccare - ha concluso il professore - in tutte le Regioni vinicole di tradizione, si pensi alla Francia, la densità e l’estensione delle vigne è altissima rispetto alla Toscana. Vuol dire che ci sono ancora margini di crescita. Tuttavia, non va dimenticato che la bellezza del paesaggio toscano è un valore aggiunto, che spinge in alto l’unicità delle nostre produzioni, vino in primis. Per questo bisogna trovare il giusto equilibrio che non è mai quello della “mitica natura vergine”, ma quello che viene dalla cultura dell’uomo, dalle sue necessità economiche, ma anche dal senso antico e classico, quello della misura, vero segreto del Rinascimento. Senso della misura e senso del limite che oggi si stanno perdendo. Facciamo sì che dalle meravigliose campagne parta il messaggio per recuperarli come filosofia di vita, da additare e tramandare alle giovani generazioni”.

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