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Il futuro della viticoltura italiana, ed europea, nelle riflessioni, a WineNews, del professor Attilio Scienza. “Il cambiamento climatico va affrontato, puntando sulla genetica, sulla ricerca e su una viticoltura diversa, imparando dalla storia”

Italia
Attilio Scienza, tra i massimi esperti di viticoltura ed enologia al mondo e docente all’Università di Milano

Quella che sembra attendere la viticultura italiana ed europea nei prossimi decenni è una vera e propria rivoluzione, dettata soprattutto dal cambiamento climatico, ma non solo. A WineNews le riflessioni del professore Attilio Scienza, tra i massimi esperti di viticoltura ed enologia al mondo e docente all’Università di Milano, che immagina un futuro ben diverso dal presente cui siamo abituati, e parlare di rivoluzione, in questo senso, è tutt’altro che azzardato.
“È molto difficile dare una visione unitaria ad un fenomeno molto più articolato e complesso di quello che può apparire”, spiega il professor Scienza, parlando dell’annata 2017, particolarmente complessa in termini di andamento climatico, e che potrebbe rivelarsi un vero e proprio spartiacque tra l’enologia del passato e quella del futuro.
“L’Italia è un Paese lungo, che attraversa molti gradi di latitudine e con delle condizioni climatiche molto diverse, per cui non è possibile generalizzare. Si continuano a fare dei paragoni, con l’annata 2003 o con la 2013, ma anche se in quelle due annate le temperature erano state molto elevate durante l’estate, le condizioni primaverili furono molto diverse, le piante ebbero a disposizione molta più acqua, svilupparono chiome molto più ampie, e si trovarono a dover contrastare la siccità ed il caldo con una superficie fogliare molto più ampia, molto più difficile da proteggere. Quest’anno in effetti la vegetazione è partita in modo più lento, le piante non si sono sviluppate in modo così vistoso, ed i sintomi della siccità non sono così eclatanti come furono invece nel 2013 o nello stesso 2003. Le piante si sono in un certo senso acclimatate al caldo, e adesso sicuramente soffrono, e la produzione sarà minore in termini di quantità, però le conseguenze sul lato qualitativo non saranno così gravi come negli appena citati, anche perché, probabilmente, il fatto di essere partite, queste piante, con poca acqua a disposizione sin dall’inizio, ha stimolato un approfondimento dell’apparato radicale, e quindi una possibilità di intercettare acque che sono normalmente così profonde da non poter essere raggiunte dalle radici”, analizza Attilio Scienza.
“Certamente sarà un anno non molto produttivo, in parte anche per quegli ambienti che hanno subito i danni del freddo primaverile, o dove ci sono state delle grandinate, o delle bombe d’acqua, che hanno danneggiato molti vigneti. Complessivamente, se potessimo sorvolare l’Italia a volo d’uccello, noteremmo un colore stranamente molto verde di tutti i vigneti italiani. È un dato importante, che differenzia questa annata dalla altre. Poi, nel dettaglio della qualità, della composizione chimica, è difficile fare delle previsioni, non è solo impossibile, ma anche fuorviante, non si devono ipotizzare annate prima di averne verificato la qualità in cantina. Purtroppo - sottolinea Scienza - è stata una pratica molto diffusa in passato, che adesso anche i media rinunciano a fare, probabilmente avremo delle certezze solamente quando potremo assaggiare questi vini in cantina. La produzione sarà certamente più bassa in termini di quantità, anche se a macchia di leopardo: alcune zone saranno più povere di uva, altre subiranno di meno i danni della siccità”.
“Quello che secondo me è da considerare è il modo nel quale noi, nei prossimi anni, dovremo far fronte a questi fenomeni climatici, che non saranno più, probabilmente, degli eventi straordinari, ma delle costanti abbastanza ripetibili, e allora bisogna che utilizziamo gli strumenti che hanno utilizzato i nostri predecessori, qualche secolo fa, quando non avevano altri mezzi per reagire alle condizioni climatiche, non avevano l’irrigazione, né le conoscenze su come affrontare lo stress idrico, e allora utilizzavano la genetica, la selezione. Sceglievano delle piante, delle varietà che, nel confronto con il clima, dimostravano di essere più adatte a superare lo stress termico e lo stress idrico. Quindi, nell’osservazione continua, anno dopo anno, individuavano delle piante particolarmente tolleranti e con quelle rifacevano i nuovi impianti. Noi abbiamo strumenti più efficaci per fare questo - spiega Scienza - anche se lo strumento della genetica sarà il più efficace nei confronti del cambio climatico, per il quale non possiamo fare nulla: potremmo cercare di indagarne le cause, attribuendole ai cattivi comportamenti dell’uomo, o ai cicli che da sempre riguardano, in modo spontaneo, la nostra terra, ma la cosa che dobbiamo fare davvero è reagire. La genetica, nella scelta non solo delle varietà, ma anche degli incroci, per progettare una serie di varietà che abbiano la capacità di tollerare al meglio la mancanza d’acqua, e di essere capaci di mantenere dei livelli di acidità e di ph altrettanto bassi nei mosti per poter superare anche questi momenti di eccesso di calore”.

Genetica sì, ma senza dimenticare le buone pratiche agronomiche, perché, come ricorda ancora il docente dell’Università di Milano, “anche i portainnesti saranno uno strumento strategico
: noi abbiamo costituito i nostri primi portainnesti nei primi dell’Ottocento, ma non hanno mai avuto il bisogno di dover affrontare annate così siccitose e calde, per cui ci siamo limitati a trovare dei portainnesti che tollerassero la fillossera o i livelli di calcare attivo nel suolo. Ora si pone una nuova emergenza, quella di creare dei portainnesti capaci di consentire alle varietà sopra innestate di avere un’efficienza maggiore, intendendo per efficienza la capacità di un individuo, e quindi della vite, di produrre la stessa quantità di sostanza secca, quindi di foglie, di uva e di radici, con una quantità minore di acqua. I portainnesti ad esempio che abbiamo costituito a Milano, in questi anni, hanno dimostrato che si possono ottenere gli stessi risultati qualitativi con un risparmio del 30% di acqua. Già questo è un passo importante, che apre una prospettiva, non è un dato finale, dobbiamo lavorare ancora, ma abbiamo a disposizione nuove specie americane capaci di vivere in ambienti desertici, in ambienti con piovosità bassissime, ed è da quelli che noi dobbiamo trarre la resistenza da trasferire nei nostri portainnesti. Questo si può fare molto più rapidamente attraverso le tecniche innovative della genetica odierna, il genoma editing, che ci offre gli strumenti per avere, in pochi anni, nuovi genotipi da provare”.
Certo non sarà un passaggio semplice, né immediato, tanto che per ora, la viticoltura con cui facciamo i conti, spiega ancora Attilio Scienza, è ancora “quella antica, del passato, dobbiamo perciò introdurre delle tecniche di adattamento per poter superare i prossimi anni di siccità, e questo vuol dire modificare, anche in modo sostanziale, le tecniche colturali, partendo dalle fittezze di impianto. Dobbiamo abbandonare questi vigneti fitti che avevamo costruito negli anni Settanta e Ottanta sul modello francese, per tornare alla viticultura mediterranea, quella che veniva chiamata aridocoltura, con sesti molto più larghi in modo tale da consentire, agli apparati radicali, di espandersi maggiormente. Un impianto fitto costringe le viti ad avere apparati radicali più piccoli, anche per avere dei vigori limitati, e questo poi fa sì che le piante non abbiano una capacità di esplorazione radicale sufficiente per garantire la produttività della pianta stessa. Bisogna cambiare sesti di impianto, cambiare tecniche di coltivazione del suolo, penso agli inerbimenti, che dovremmo dimenticare: quello che avevamo previsto negli anni passati, di poter mantenere uno standard di sostanza organica nel suolo attraverso inerbimenti più o meno permanenti bisognerà forse modificarlo in modo sostanziale, ed introdurre tecniche di aridocoltura che prevedono delle lavorazioni continue, superficiali ma continue. Dobbiamo ridurre la perdita di acqua da traspirazione delle stesse infestanti anche in primavera, e per evaporazione dal suolo rompendo la capillarità, quindi evitando che l’acqua possa, dal suolo, allontanarsi ed andare nell’atmosfera. Poi tutta un’altra serie di interventi che vanno dalla gestione della chioma al fatto di evitare ad esempio le sfogliature, perché si è visto che sfogliando, anche precocemente, purtroppo si possono avere su molte varietà dei danni gravi dovuti ad ustioni, ad eccesso di radiazione, e naturalmente cominciare a pensare anche ad una delocalizzazione della viticultura”.

In pericolo, mette in guardia Attilio Scienza, ci saranno innanzitutto “le viticulture di costa, specialmente nelle Regioni meridionali, che dovranno essere abbandonate per andare verso la parte centrale della Penisola. Assisteremo ad una sorta di riscatto dell’Appennino, che certamente avrà maggiori condizioni di vivibilità della viticultura, un po’ perché può fare riserve idriche, e quindi utilizzare una serie di raccolte di acqua artificiale per poter irrigare, ma anche perché le condizioni termiche dell’Appennino sono certamente più favorevoli alla viticultura. Un’altra cosa che in futuro bisognerà fare è quella di introdurre o di spostare molte varietà del Meridione italiano anche in zone del Centro Nord, perché in questo modo utilizziamo centinaia e centinaia di anni di selezione, di varietà al Sud che possono essere una riserva fondamentale ed importantissima per rifare una viticoltura al Nord in condizioni di temperature molto elevate ed in mancanza di acqua”.

Impossibile, ovviamente, che il discorso non si sposti sul livello enologico. “Probabilmente - spiega il professore di Enologia - ci ricorderemo dei vini degli anni Ottanta, degli anni Sessanta o Settanta, ma non torneremo più a quel tipo di vino, e quindi dovremo abituarci in un certo senso a dei profili sensoriali molto più simili ai vini delle regioni calde, pensiamo all’Australia, alla California, a territori che, da molto tempo, producono vini con dei descrittori sensoriali molto diversi da quelli a cui noi siamo abituati. Anche questo può rivelarsi un aspetto importante, almeno a livello di comunicazione, di aiuto del consumatore a capire come il vino cambierà e sta cambiando, come sarà nei prossimi anni. Naturalmente, le zone alpine sono in questo momento molto favorite, perché possono usare l’altitudine, esposizioni meno favorevoli, e quindi avere la possibilità di produrre ancora dei vini con dei profili sensoriali simili a quelli del passato. Il resto dell’Italia farà invece molta fatica a mantenere quegli standard qualitativi e di di stabilità sensoriale che avevamo conosciuto. Se questo può consolarci, nelle cronache della vendemmia all’epoca del Concilio di Trento, tenuto a metà del Cinquecento, scritte dal cronista Mariani, si scopre come in un anno in Trentino la vendemmia era iniziata negli ultimi giorni di luglio: anche cinquecento anni fa le condizioni termiche, o comunque dell’anticipazione della maturazione, non erano molto diverse da quelle di adesso, ed allora probabilmente l’azione dell’uomo sul cambio climatico era insignificante rispetto a quella di oggi. Al di là delle considerazioni di tipo millenaristico, i cicli climatici, che sono cicli di freddo e di caldo, hanno certamente sempre attraversato la nostra agricoltura, e quindi la nostra viticultura, a tal punto che un grande climatologo francese, nella metà del secolo scorso, diceva che la viticultura europea ha sempre dovuto fare i conti nel suo sviluppo e nella sua affermazione, con il clima, ed è riuscita a vincere questa sfida proprio scegliendo le varietà giuste ed i posti giusti dove coltivarle. È una lezione importante, che mantiene il suo valore anche adesso, perché in futuro dovremo ripensare ai nostri vitigni e ripensare ai luoghi dove fare la viticultura dei prossimi anni”.
La viticultura, e quindi la nostra storia viticola europea, racconta Attilio Scienza, “è sempre stata una storia di cambiamenti. Pensiamo ai trecento anni della fase fredda dell’Europa, dal 1350 al 1709: in quella fase le cose si erano manifestate in senso opposto, con un periodo di freddo e la gran parte dei vitigni allora acclimatati che venivano da una fase calda, con l’ulivo che, nel 1200, si poteva coltivare sopra i 1.000 metri sulle Alpi, e dove la viticultura si era spinta in tutte le valli della montagna europea, facendo vino in posti oggi impensabili, come la Scozia, o altre zone del Nord Europa. In sostanza, le cose si ripetono, ed anche allora l’elemento di risposta al cambiamento climatico è stato quello di cambiare le varietà: lo Chardonnay è stato introdotto nella Champagne in quel periodo, il Pinot Nero quasi scompare dalla viticultura della Champagne, si introduce una varietà adattata al freddo che veniva dai Paesi dell’Est, come l’Ungheria, che sarà il padre dello Chardonnay insieme al Pinot Nero. Ancora una volta, la genetica è l’elemento del cambiamento, qualcosa che consente all’uomo di essere resiliente nei confronti del cambio climatico e di non subirne le conseguenze. Questo, nell’uomo moderno, che ha la presunzione di controllare tutti gli elementi della produzione, può apparire come qualcosa che sfugge dal suo controllo, ma noi dobbiamo pensare che la genetica è ciò che ha consentito il mantenimento non solo della viticoltura, ma di molte colture, dai cereali alla frutta, alle verdure, lungo migliaia di anni, dal Neolitico in poi, in condizioni molto diverse. La genetica, purtroppo, è stata un po’ dimenticata, perché si pensava di avere altri strumenti per condurre l’agricoltura, invece sta tornando come strumento fondamentale per gestire il cambiamento”.

Ma non basta, perché bisogna avere il coraggio di affrontare la realtà. “Si dice che il cambio climatico vada affrontato attraverso due elementi fondamentali: quello della previsione, attraverso dei modelli climatici, e quello della tempestività. Ancora una volta, uno strumento che può rivelarsi importante, anche in medio periodo, è quello di utilizzare i dati che possono venire dai satelliti, che forniscono una quantità enorme di dati, sulla fisiologia delle piante, sulle temperature del suolo, sull’umidità del suolo, sulla fotosintesi. Questi dati, raccolti da piattaforme digitali capaci di elaborarne il significato, ci danno dei modelli previsionali e predittivi, attraverso cui prevedere tra quanti giorni, ad esempio, avremo bisogno di acqua in un determinato vigneto, di quanta acqua servirà, ma ci diranno anche quando il vigneto, ad esempio, correrà il rischio di una infezione di funghi, perché il cambio climatico comporta anche delle variazioni importanti nella patogenesi di alcuni funghi o nell’aggressività di alcuni insetti, e ci dirà per esempio il decorso della maturazione, è fondamentale con il cambio climatico avere una tempestività di come si svolge la maturazione, bastano pochi giorni per compromettere la composizione di un mosto e quindi il destino di un vino. Questi modelli, che adesso si possono costruire con delle piattaforme informatiche ad hoc, che ci consegnano segnali molto rapidi, tempestivi, a cui possiamo rispondere intervenendo in vigna n maniera immediata in ogni momento dell’anno. Oltre alla genetica, in tempi lunghi, ed alle nuove tecniche culturali, in tempi medi, in tempi rapidi abbiamo altri strumenti, tecnologici, per reagire nei confronti del cambio climatico”.

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