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La vigna ha memoria. L’ultima ricerca dell’Accademia Italiana della Vite e del Vino sul Sangiovese conferma che le viti possiedono una memoria genetica di provenienza. Delle sue possibili attuazioni hanno discusso produttori e ricercatori insieme

“La vigna sembra mostrare una memoria genetica di dove proviene”. Uno studio effettuato su campioni di Sangiovese grosso e piccolo sembra confermare che nel Dna delle viti resti traccia del terreno in cui è stato tradizionalmente coltivato: nello specifico, le accessioni dello stesso vitigno di Sangiovese grosso si sono differenziate in quattro biotopi che coincidono con i tradizionali areali di coltivazione toscani (Montalcino, Chianti, Scansano, Montepulciano). Il tema della memoria genetica della vigna è stato il messaggio principale dell’incontro “Sentieri: un percorso di ricerca nel vitigno Sangiovese”, per riflettere con produttori e ricercatori sui risultati di questa recente ricerca scientifica compiuta dall’Accademia Italiana della Vite e del Vino, il 10 luglio, a Roma, dall’Accademia Italiana della Vite e del Vino (www.aivv.it) e da Foragri (www.foragri.com), sotto gli affreschi della Galleria del Cardinale di Palazzo Colonna a Roma.
Una giornata importante, in cui scienza e produzione finalmente insieme, si sono scambiati idee e informazioni, riallacciando un legame che sembrava interrotto e quasi impossibile. Una bella prospettiva per il futuro che incoraggia tutto il settore, perché la conferma di una tale scoperta potrebbe aprire finalmente alla possibilità di dividere in sottozone territori vocati come quello di Montalcino, o di certificare i Cru aziendali, seguendo la genialità dei cugini francesi, dibattito che ha appassionato i produttori, ricercatori, esperti e giornalisti del settore enoico presenti alla giornata dedicata al vitigno autoctono più diffuso in Italia.
Il risultato innovativo della ricerca sulla capacità di adattamento al territorio che la vigna memorizza, tanto da riconoscere sempre la propria provenienza, è stata presentata nella relazione dei ricercatori del Crea-Vit di Arezzo Paolo Storchi e Stefano Meneghetti, coordinati da Roberto Bianchi, dg Foragri. Lo studio è stato effettuato sul Sangiovese perché è il più diffuso vitigno italiano ed è coltivato in molte regioni del paese, ma grazie alle sue antiche origini, oggi mostra un’elevata variabilità morfologica che ha portato alla selezione di molti biotipi locali con più di un centinaio di cloni registrati. Esso principalmente si divide in due famiglie: Sangiovese grosso, il più diffuso e presente nel Catalogo Nazionale delle Varietà di Vite, e Sangiovese piccolo, spesso chiamata come Sanvicetro e non presente nel Catalogo Nazionale.
Un altro elemento che porta ulteriori confusioni sul Sangiovese è la ricca presenza di denominazioni locali di questo vitigno: basti pensare al Brunello di Montalcino, al Morellino di Scansano, al Prugnolo di Montepulciano, al Chianti fiorentino e classico, ai Sangiovesi romagnolo, di Pitigliano e del Valdarno, solo per citarne alcuni, che all’analisi varietale risultano tutti Sangiovese grosso, così come il Nielluccio coltivato in Corsica. Si è quindi condotto uno studio molecolare sulle due varietà di Sangiovese, chiamate Sangiovese grosso e Sangiovese piccolo, affiancando anche una terza cultivar, quella del Montepulciano (per fare un’analisi non solo intra- ma anche inter- varietale di maggior respiro), allo scopo di verificare se, come successo in altre cultivar di vite, accessioni di uno stesso vitigno coltivato in areali differenti potessero poi differenziarsi a livello molecolare, così come avviene a livello enologico nei vini.
Dopo l’utilizzo di diversi marcatori molecolari e una discriminazione a livello di Dna, i sottogruppi hanno tutti mostrato un legame con la differente provenienza geografica delle accessioni stesse: per il Sangiovese grosso si sono evidenziati 4 raggruppamenti principali, uno riguardante le accessioni provenienti della Toscana (il più numeroso), uno per quelle di Lazio ed Emilia-Romagna, uno per quelle del Nord Italia e uno per quelle del Meridione. In particolare, considerando solo le accessioni toscane e inserendo il Nielluccio corso come out-group, si è notato come i materiali di Montalcino (Brunello) si sono raggruppati separatamente a quelli del Chianti classico e fiorentino, alle accessioni di Scansano (Morellino) e a quelle di Montepulciano (Prugnolo), staccandosi dalle tre accessioni di Sangiovese romagnolo che hanno costituito quasi un secondo out-grup.
Questi risultati confermano che la differenziazione dei biotipi di Sangiovese grosso nel territorio toscano seguono un gradiente geografico strettamente legato ai loro areali di coltivazione, pur trattandosi di accessioni tutte identificate agli SSR come Sangiovese grosso: la dimostrazione è stata poi suffragata, per gli aspetti agronomici, da Stefano Cinelli Colombini, ad Fattoria dei Barbi, che ha riportato le ricerche pluriennali della sua azienda, e per gli aspetti enologici dal professor Vincenzo Gerbi dell’Università di Torino.

I produttori e giornalisti hanno dibattuto poi sull’impatto che la ricerca potrebbe avere: coordinati dal professor Davide Gaeta dell’Università di Verona, si sono confrontati Lamberto Frescobaldi dei Marchesi Frescobaldi, Emilia Nardi delle Tenute Silvio Nardi, Alessandro Mori de Il Marroneto, Giacomo Neri (Casanova di Neri), entrambi autori di un Brunello di Montalcino da 100/100 punti di The Wine Advocate by Robert Parker. I relatori, insieme al sommelier Luca Gardini e il professor Antonio Calò, hanno discusso con passione sulla possibilità che questa scoperta aprisse le porte ad una possibile divisione in sottozone, come per la zonazione del Bordeaux, o ad una certificazione di cru aziendale, su modello della Borgogna.

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