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Percorso in salita con quadro normativo (quasi) chiaro: Brunello di Montalcino si confronta sulla sua identità di (bio)distretto rurale, guardando in faccia al suo potenziale, ma anche a tutto ciò che manca: partecipazione, confronto, azioni concrete

Italia
Il Brunello di Montalcino si confronta sulla sua identità di biodistretto rurale

Il forte legame fra la Toscana e l’agricoltura è storico e universalmente riconosciuto: dal disegno del paesaggio che ne deriva, alle eccellenze enogastronomiche che produce, lo sviluppo agricolo della regione è sempre stato un valore aggiunto al successo dell’immaginario toscano esportato in tutto il mondo. La possibilità di far confluire tutto questo patrimonio in un progetto organico e strutturato (ma soprattutto normato), in grado di dare coesione economica e territoriale, è recente e si chiama “distretto rurale”. E non stupisce che la riflessione attorno al suo concetto sia nata proprio in Toscana, nella Maremma in particolare, dove si è sentita l’esigenza, negli anni 90, di rilanciare un territorio che non poteva contare su di uno sviluppo industriale spiccato. Il Comune di Montalcino è diventato distretto rurale da poco, a dicembre 2016: una scelta che si è fatta confluire all’interno dell’iter di fusione con il Comune di San Giovanni d’Asso e che ha reso possibile di accelerare i tempi di riconoscimento legislativo supportato dalla collaborazione di Gianluca Barbieri, a capo del Settore Distretti Rurali della Regione Toscana. Il passo, però, è stato ulteriore: parte della società civile ed economica del paese del Brunello, ha infatti deciso un anno prima, nel novembre 2015, di costituire un Comitato per promuovere lo sviluppo dell’agricoltura biologica nel territorio di Montalcino ed arrivare progressivamente a realizzare il “Biodistretto di Montalcino”.
Con un comprensorio di 24.000 ettari, il Comune di Montalcino è uno fra i più vasti d’Italia, ora arricchito del territorio di San Giovanni d’Asso. Ma solo il 15% della superficie è vitata, dedicata alla coltivazione del Sangiovese, declinato in tutte le diverse denominazioni ed eccellenze, a partire dal Brunello di Montalcino: il resto è diviso fra bosco naturale (ben il 50%) e coltivazione di altre colture, dai seminativi all’olivo. C’è, quindi, citando il conte Francesco Marone Cinzano, proprietario di Tenuta Col d’Orcia, una delle cantine storiche e più prestigiose del territorio di Montalcino, "un’effettiva naturale vocazione alla biodiversità". Di questi 3.500 ettari dedicati alla coltivazione di uve da vino, il 17 % (600 ettari) è già biologico, ma gli ettari in conversione non rientrano nel conteggio e sono in aumento. Il Comitato che ha iniziato a dibattere sul progetto del biodistretto è partito con oltre 40 aziende e col tempo è riuscita a coinvolgere i maggiori produttori di Brunello della collina di Montalcino: da Col d’Orcia, principale promotore, a Castelgiocondo di Frescobaldi e Castiglion del Bosco (Ferragamo). Ma di certo il contributo delle piccole realtà, che effettivamente rappresentano la caratteristica del tessuto economico del territorio, non è certamente meno importante.
Oggi, a Montalcino, una conferenza alquanto tecnica, ma intrisa di messaggi simbolici, ha consegnato nelle mani della Comunità del Brunello una serie di riferimenti strutturali all’interno della quale muoversi per dare finalmente una spinta concreta al percorso verso il biodistretto. Il messaggio passato da parte di tutti gli interventi che si sono susseguiti - dal sindaco Silvio Franceschelli alla professoressa Daniela Toccaceli (Università di Firenze), al conte Francesco Marone Cinzano - è che nessun distretto, rurale o bio che sia, può avere successo senza la partecipazione attiva di tutti i cittadini e senza la consapevolezza che è uno strumento potente, che va saputo usare, da riempire di significati e azioni concrete che la cittadinanza stessa sceglie di consegnargli e di portare avanti con costanza: senza contenuti un distretto resta un pezzo di carta vuota, l’ennesimo slogan in funzione del mercato.
All’interno della sua relazione sullo stato normativo attuale dei distretti rurali e biodistretti (esiste una legge regionale toscana approvata ad aprile, mentre quella nazionale è in attesa di approvazione al Senato), la professoressa Daniela Toccaceli dell’Università di Firenze, ha precisato che il biodistretto è una sorta di potenziamento dal lato della qualità dell’ambiente e delle produzioni d’origine di tutti gli aspetti che i distretti rurali “normalmente” favoriscono: dalle filiere agroalimentari, alle relazioni fra attori pubblici e privati, ai processi di innovazione e di integrazione. “Lo scopo è uno sviluppo del territorio rurale che sia sostenibile - spiega Toccaceli - e per raggiungerlo serve aggregazione fra le diverse realtà che lo vivono, serve rappresentatività. Ma servono anche i contenuti: dall’identificazione dell’area che vuole rappresentare, alla governance fatta di un soggetto referente e un’assemblea che dia un indirizzo, e servono i contenuti. Cooperazione, garanzia che tutti possano partecipare e discutere, senza perdere la capacità di prendere decisioni concrete, perché il confronto è utile e necessario, ma alla fine bisogna decidere…è tutto previsto all’interno della legge in discussione”. Anche il professor Marco Mazzoncini, docente alla Facoltà di Agraria dell’Università di Pisa, punta sul valore ambientale che il bio dà al distretto: “per lavorare a livello locale per risolvere problemi globali”. Secondo Mazzoncini il valore aggiunto della pratica biologica è la capacità usare risorse interne all’azienda e di non esaurirle: nel distretto non si fa altro che declinare questa capacità ad un’area più grande, in questo caso amministrativa. “Le sfide dei biodistretti - sostiene Mazzoncini - sono la capacità di reagire con resilienza agli stress esterni, la protezione della biodiversità, la produzione di cibo sano a prezzi accessibili, la riduzione dell’inquinamento, l’uso di energie rinnovabili e materiali riciclati, la costruzione di sistemi etici di produzione … se non c’è pianificazione e rete fra i diversi attori, il territorio entra in difficoltà: calano le disponibilità idriche, cala la protezione dai patogeni, la regolazione del clima. I risultati globali sono oggi sotto gli occhi di tutti, ma un territorio compatto, localmente, può fare la differenza”.
Ma i distretti hanno anche il compito di comunicare la loro forza all’esterno: se un biodistretto è capace di proteggere la propria biodiversità, conservare le proprie comunità rurali e mercati locali, c’è dall’altra parte un consumatore che deve avere fiducia nella genuinità e qualità dei prodotti che ne derivano e che permettono a quel territorio di essere sostenibile anche economicamente. È qui che entra in gioco il ruolo della certificazione e l’importanza che ha nel dare credibilità al progetto. “Noi verifichiamo che il prodotto, il processo, il servizio, il sistema, siano congruenti alle norme e disciplinari a cui si rifanno - spiega Fabrizio Piva, amministratore delegato dell’ente certificatore Ccpb - ma il primo soggetto che dev’essere consapevole della sua scelta è il produttore stesso, perché è lui il responsabile ultimo dell’oggetto che certifichiamo. Lui col suo comportamento, che deve esistere al di là della legge: nessuno infatti lo obbliga”. Gli strumenti a disposizione per controllare l’aderenza normativa di una data attività o prodotto sono innumerevoli, dalla tracciabilità della filiera, ai Water o Carbon Foot Print, fino ai parametri comunitari della Biodiversity Alliance, ma è uno sforzo di miglioramento che fa la singola azienda che vuole aderirvi nel quotidiano.
Le conclusioni dell’incontro restano in mano al conte Francesco Marone Cinzano, proprietario di Col d’Orcia, e al dirigente Barbieri della Regione Toscana. “Montalcino è naturalmente predisposta ad essere un biodistretto - commenta Marone Cinzano - perché abbiamo una biodiversità storica distribuita sul territorio: la metà è macchia mediterranea, solo il 15% è dedicato al vigneto. Ma per quanto naturale possa sembrare, non c’è attualmente la fame che serve per nutrire il progetto. La maggior parte del successo di Montalcino non proviene dal vino: proviene da altre risorse, comprese quelle turistiche. E il biodistretto è l’unica opportunità che abbiamo per traghettarci in un futuro di crescita”. Un incontro, che dal palco lancia un forte appello al senso di comunità di Montalcino, chiuso dalla metafora automobilistica dal dirigente Barbieri: “questo percorso appena iniziato è come affrontare l’acquisto di una macchina: se ne discute in tutta la famiglia, pure coi suoceri spinosi, per sceglierla e per trovare i soldi, interni alle capacità familiari. Poi qualcuno si prende la responsabilità di decidere seguendo l’indirizzo dato dai diversi componenti, ma, a parte i controlli regolari imposti dallo stato, la manutenzione deve essere quotidiana e condivisa. Senza dimenticare le ruote: cultura locale, istituzioni, tessuto economico e tessuto sociale. Senza di loro, senza la partecipazione attiva di tutti, la macchina non parte e non andrà lontano”.

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