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Da lontana annata 1967 alla più recente 2006: percorso tra 22 etichette di Brunello, guidato dal sommelier “campione” Luca Martini, alla scoperta di stili, evoluzione e vendemmie che hanno segnato i primi 50 anni di vita del Consorzio di Montalcino

Italia
Dalla 1967 alla 2006, 22 etichette per ripercorre storia e vendemmia dei 50 anni del Consorzio del Brunello di Montalcino

Un percorso che inizia dall’annata 1967, anno di fondazione del Consorzio del Brunello di Montalcino, ed arriva al 2006, tra le migliori espressioni del Sangiovese, e quindi del Brunello, dell’ultimo decennio, per raccontare mezzo secolo di storia, non tanto di un vino nato tanti decenni prima, quanto di un’istituzione che ha giocato un ruolo di rilievo nella crescita e nell’internazionalizzazione di una denominazione diventata, in pochi anni, punto di riferimento e simbolo dell’Italia enoica. In una degustazione, rigorosamente, alla cieca, guidata dal miglior sommelier del mondo del 2013, Luca Martini.
“Tra il 1957, anno di crisi dell’economia rurale italiana e toscana, in cui il paese si svuota, ed i montalcinesi si spostano in città, ed il 1967, anno di fondazione del Consorzio del Brunello, a Montalcino si bevono due vini: il Brunello e “l’acquetta”, il vino nato dalla seconda spremitura delle uve di Sangiovese, quello di tutti i giorni”. Così Luca Martini apre la degustazione che celebra i 50 anni di vita del Consorzio del Brunello, con una Riserva 1967 dei Conti Costanti, tra i padri nobili del Brunello, figlio di un’annata calda, dai profumi di prugna secca e sentori terrosi, ma anche, ovviamente, balsamici. Ciò che sorprende, però, è la croccantezza del frutto, merito di un tannino ancora giovane, persino sorprendente con i suoi sentori di scorza d’arancio: merito della fermentazione del grappolo intero, una vinificazione ormai desueta ma che in molti piccoli vignaioli stanno riscoprendo in tutta Italia.
Il secondo vino è un altro 1967, della Tenuta Il Poggione, ma sembrano due annate diverse rispetto all’assaggio che l’ha preceduto: qui si coglie la diversità all’interno del territorio, questa è l’anima del Sangiovese, la sua profondità, un tannino meno croccante ma per questo un vino più succoso, sicuramente non in fase declinante, non ancora. Arriva da una zona più calda, ed infatti il frutto è più cotto.
Il millesimo 1968 arriva da Col d’Orcia, e colpisce subito per una nota ferrosa al naso, ma in bocca è tutta un’altra cosa, ciliegia sotto spirito, note agrumate, chiusura piacevolmente amaricante. Bella, però, l’acidità, che lo rende ancora vibrante in bocca.
Il 1968 Riserva di Tenute Silvio Nardi rivela note decisamente diverse, erbe di campo, tanto tabacco, forse troppo, ma anche eucalipto al naso. In bocca, un’entrata alcolica, ma una persistenza limitata, nonostante una chiusura netta, decisa, ma nel complesso un vino decisamente meno in forma dell’annata, quasi seduto.
Il 1971 di Canalicchio di Sopra è frutto di un’annata minore, non indimenticabile, almeno nella media. In questo caso, è un Sangiovese leggermente torbido, dal naso esile, ma l’evoluzione non è la stessa al palato, dove i sentori di menta ed erbe officinali lo rendono ancora vivace e piacevole.
Il 1977 Riserva di Argiano, l’unico ritappato dell’intera batteria (nel 2000), ma sembra davvero un vino appena nato, un rosso rubino che vira verso il mattone, ma tutt’altro che rispondente alla sua età. Un naso spettacolare, la susina è ancora croccante, in bocca è persino sorprendente, verticale, succoso, sanguigno, alcalino, l’annata fredda ha regalato delle acidità e soprattutto un tannino eccezionale, il suo timbro, perché un tannino verde nasce verde e rimane verde.
Il 1980 de La Gerla, un naso che potremmo definire classico di un’annata calda, sovrastante persino, decisamente meno fresco dei precedenti, meno vibrante anche al naso, meno verticale, ma forse più appagante in bocca, grazie proprio alle note alcoliche. Di certo, non è un vino da cui ci si attende ancora grande longevità.
Il 1985 del Canalicchio di Franco Pacenti è il risultato di un’annata storica, in maniera però negativa, con la gelata che colpì gli ulivi (più che le viti), tanto da diventare, negli anni, una vendemmia da sopravvissuti, tanto da rimanere, in qualche modo, nella storia. Non è il millesimo che porta Montalcino nell’olimpo dei grandi territori, nel bicchiere il naso è flebile, ma i sentori sono ancora quelli di piccoli frutti rossi croccanti, meglio ancora la bocca, tenuta su da una piacevole acidità non supportata, però, da grande ampiezza.
Il 1988 di Baricci mette subito le cose in chiaro: siamo di fronte ad una pietra miliare degli anni Ottanta, una grande annata, ascrivibile alle migliori. Colore ancora brillante, naso compatto, fermo, scorza di arancia e fieno secco, in bocca è un classico Sangiovese, la ciliegia è succosa, la ferrosità lo rende ancora più gradevole e beverino, mentre la chiusura amaricante completa un equilibrio davvero gradevole, grazie, ancora, al retrogusto ferroso.
Il 1990 Riserva del Marchesato degli Aleramici è un altro punto punto di riferimento, in termini di annata, calda, generalmente potente, buona praticamente dappertutto, ricorda molto la 2000 e la 2005 pescando tra le vendemmie più recenti. Un colore denso, poi elegante al naso, con una nota di leggera ossidazione, un frutto leggermente surmaturo. In bocca è davvero succoso, avvolgente, la chiusura anche qui leggermente amaricante.
Il 1991 di Corte Pavone, frutto di un’annata che subisce il fascino della 1990, è figlio di una primavera molto fredda ed un’estate molto calda, che ha dato vini di media fattura, sia a Montalcino che nel Chianti Classico. Il naso non è scorretto, in questa declinazione, ma si sentono note terziarie che lo rendono tutt’altro che perfetto. In bocca, pur succoso, risulta piatto e un po’ troppo corto.
Per la vendemmia 1993 si scopre il Poggio all’Oro Riserva di Castello Banfi: una buona annata, in cui fu, però, difficile portare a maturazione le uve, come si evince da un bicchiere dai colori densi, ma dal naso di frutta leggermente surmatura, mentre in bocca si rivela decisamente più piacevole, complesso e godibile che al naso.
Il 1995 di Poggio Salvi, non è il risultato di un’annata particolarmente blasonata, ma che va distinta tra cantina e cantina: in questo caso, un naso blasamico ma un po’ troppo avanti per l’annata. Bocca classica, geometrica, piena di sfaccettature in equilibrio, tra freschezza, mineralità e florealità.
Il 1997 di Fattoi rivela ancora una grande annata, con un vino particolarmente concentrato, frutto dell’utilizzo massiccio, in quel periodo, almeno in senso generale, della botte piccola. In questo caso siamo di fronte ad un vino muscolare, a partire dal naso, polposo e peposo, per un vino molto strutturato e succoso, in piena forma ed equilibrio perfetto, con una bella nota alcolica finale.
Il 1997 di Pian delle Vigne (Antinori) rivela invece un tono cupo, che svrla un vino verticale, moderno, dalla speziatura divertente, tra il rabarbaro ed il pepe nero al naso. In bocca succosità e polpa, leggermente diverso da quanto ci si potrebbe aspettare da un Sangiovese, perché certe note di carruba poco hanno a che vedere, ma nel totale è assolutamente piacevole.
Il 1999 Val di Cava è una di quelle bottiglie con cui si va sul sicuro: al naso una leggera volatile al naso lascia poi spazio ad una bella fragolina di bosco, mentre in bocca un’acidità un po’ troppo marcata lo rende in un certo senso sgraziato, ma nel complesso è elegante nella sua imperfezione.
Il 2000 di Castelgiocondo (Frescobaldi) arriva da un anno orrendo, in cui l’Italia enoica si fece prendere un un certo senso la mano dalla corsa ai cugini di Francia, che sbandieravano l’annata 2000 come la migliore del secolo: ma da noi le maturazioni stentavano ad arrivare ed i risultati si vedono nel bicchiere. Il colore è opaco, come nella maggioranza dei vini di quell’annata. Naso quindi maturo, di visciola, cannella e prugna surmatura. Al palato è caldo, sia all’entrata che nel finale, mancano eleganza e longevità.
Il 2001 di Scopone al naso ha, stranamente, già note blasamiche e legnose, ma anche frutti rossi surmaturi, in bocca eucalipto, un tannino ancora verde, una bella spalla acida ed una chiusura lineare sull’amaricante, di grande eleganza, però.
Il 2004 è il cru Vigna La Casa di Caparzo: un’annata formidabile a Montalcino. Al naso troviamo la ginestra, la scorza d’arancia, un po’ di acetone, tipici di un Sangiovese ancora giovane, ma dall’evoluzione che lascia davvero ben sperare. In bocca è fresco, ferroso, succoso, si sente la materia viva e scalpitante. È un vino assolutamente vivo, godibile, eccita la salivazione, fa venir voglia di berne ancora.
Un altro 2004, il Saporoia di Baccinetti, al naso è un po’ più evoluto del precedente, dai sentori leggermente più cotti e classici, ma meno vivace e vibrante, pur avendo anch’esso una grande bevibilità, ma su note più austere, balsamiche, meno croccanti ma non per questo meno piacevoli. La chiusura è leggermente in alto sull’alcol.
Il 2006 di Matè, annata croccante, dolce e acida, rivela al naso una nota di smalto, fieno secco e frutta gialla, che incontra la speziatura, al gusto è ematico, carnoso, dal buon equilibrio ed una grande croccantezza: esattamente ciò che ci si aspetta da un giovane Brunello, con una chiusura leggermente amaricante.
Infine, un altro 2006, quello di Val di Suga, il cru Vigna Spuntali: note di vaniglia, susina, visciola al naso, il tannino è ancora inespresso, ma ha una succosità eccezionale, ed una mineralità e ferrosità che lo rendono interessante e complesso, specie in ottica futura.

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