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Il Brunello e Montalcino, paradigma di un territorio depresso oggi prospero grazie al vino, che “non deve mai dimenticare le origini e non fermarsi mai nel fare e investire”. Così Francesca Cinelli Colombini e Ezio Rivella per i 50 anni del Consorzio

“Nel 1977 quando arrivai la prima volta, Montalcino era un Paese povero, un territorio depresso, con tantissimi terreni in vendita. Era chiaro che mancavano investimenti e non c’era mercato, per quel vino, il Brunello, pure già conosciuto e dalle enormi potenzialità. Avevo in tasca 100 dollari e mi dettero del folle a pensare di produrre 100.000 bottiglie. Franco Biondi Santi mi disse: io ne produco 13.000, e di queste ne vendo 6.000. Ma, dopo l’esperienza delle Cantine Riunite, mi lanciai nella pazza impresa, e nel 1995, quando è esploso il fenomeno Brunello, a Castello Banfi si producevano milioni di bottiglie”. Lo ha detto l’enologo-manager Ezio Rivella, artefice con e per i fratelli italo-americani Mariani della realizzazione del sogno di Castello Banfi, fondata alla fine degli anni Settanta, che ha fatto conoscere il Brunello nel mondo e ha dato impulso alla nascita del “fenomeno” Brunello, oggi vino e territorio tra i più prestigiosi e quotati al mondo. Lo ha fatto nei 50 anni del Consorzio del Brunello, fondato il 28 aprile del 1967, celebrati oggi a Montalcino, ricordando la famiglia Biondi Santi che, alla fine dell’Ottocento ha inventato il Brunello nella Tenuta Greppo. Ad emergere, quell’incontro-scontro di visioni che da sempre caratterizza il territorio, a partire proprio dalle posizioni, che seppur contrapposte all’epoca, attorno al Brunello e alla sua produzione in un’ottica futura, trovarono un compromesso nella fondazione del Consorzio. “Non avevamo la vostra visione “industriale” e le vostre strutture. Avevamo idee diverse: voi puntavate sulla quantità, noi sulla qualità - ha detto Francesca Colombini Cinelli, “signora del Brunello” della sua storia e cultura, alla Fattoria dei Barbi, nel talk show “Il coraggio e l’orgoglio: i protagonisti del Brunello 50 anni dopo” moderato dal giornalista Luciano Ferraro del “Corriere della Sera” - di battaglie ne abbiamo fatte molte. La nostra idea era quella di portare avanti Montalcino com’era. Ed era la stessa alla base di quella cultura intellettuale e scientifica che alla fine dell’Ottocento accomunava le nostre famiglie borghesi in una “fucina” di ricerche e sperimentazioni di nuove tecniche enologiche. Il Brunello è come il tweed: non siamo mai stati di moda, ma sempre un grande classico”.

Negli anni Sessanta, a Montalcino come in altre parti d’Italia, “la fine della mezzadria aveva già cambiato tutto, ponendo le basi del fare impresa - ha ricordato Francesca Colombini Cinelli - ancora oggi amiamo chiamarci fattorie, bellissimo, ma siamo imprese vere e proprie. Di uguale, qui, è rimasto solo il vino con la sua storia molto lunga. La mia famiglia si è sempre occupata di agricoltura e di vino, e in quegli anni mio padre, illuminato, decise che dovevamo cambiare pelle. Fu un momento triste, ma ci rimboccammo le maniche, mentre molti contadini lasciavano le campagne perché non potevano comprare la terra. Fu l’intervento del Governo con i mutui per le proprietà agricole che permise ad alcuni di rimanere, facendo esplodere le piccole proprietà contadine. Ma molte furono vendute ed iniziarono ad arrivare imprenditori e idee da fuori, fenomeno che, incessante, continua ancora oggi. Ma un punto fermo in comune lo abbiamo sempre avuto: il Brunello, per cui c’erano da fare scelte coraggiose e dovevamo capire quali”. “Giovanni Colombini, suo padre, fu proprio uno dei primi a capire che per il Brunello ci voleva il mercato” ha ricordato Rivella. “Ma una cosa su tutti ci ha trasmesso - ha ribadito Francesca Colombini Cinelli - massima libertà di espressione, ma con il Brunello sempre punta di diamante della produzione, perché è nostro dovere difendere questo territorio”.

“Il futuro? - ha concluso Francesca Colombini Cinelli - il tempo corre, ma la famiglia resta, e i giovani devono muovere presto i loro primi passi, mantenendo alta la qualità sul territorio come sui mercati. Arrivare primi vuol dire essere sempre ai vertici e vincenti, grazie ad una visione ampia. Un mercato anche se piccolo va conquistato con la qualità rispettando il territorio, che dobbiamo far conoscere nel mondo, avendo le nostre origini ben chiare sempre in testa”. E “non bisogna illudersi di essere arrivati - ha aggiunto Rivella – ed adagiarsi sugli allori di una posizione su di un piedistallo come è quella del Brunello, tra i migliori vini al mondo. Bisogna continuare ad investire, a fare, alimentando quel circolo virtuoso che abbiamo messo in moto e che c’è dietro l’alone di prestigio che il Brunello ha saputo conquistare”.

Oggi, ai vertici per prestigio internazionale, il territorio di Montalcino è passato da 13.000 bottiglie prodotte nel 1968 a 9,1 milioni di Brunello nel 2016 (una crescita di quasi il 70.000%, su un totale di una produzione di 14 milioni di bottiglie, il 70% all’export), dice il Consorzio, e con una rivalutazione del +2.474% di un ettaro di vigneto a Brunello, dal 1966 anno di nascita della Doc (quando erano 64 ettari e valeva 1,8 milioni di lire; nel 1967 su 115 totali, 64 erano specializzati e 51 promiscui), ad oggi (che vale 400.000 euro e gli ettari vitati sono 2.100, su 3.500 totali), dice WineNews, per un business stimato in 170 milioni di euro, con oltre 1 milione di persone che nel 2016 hanno visitato Montalcino.

Negli anni Sessanta, “parlavamo di sviluppo economico vocato e sostenibile pensando al riconoscimento della Doc al Brunello e ponendo le basi per la fondazione del Consorzio - ha ripercorso l’ex sindaco Ilio Raffaelli, di cui il presidente del Consorzio Patrizio Cencioni ha ricordato la collaborazione sinergica, accanto agli enti pubblici e privati che hanno permesso di realizzare progetti che altrimenti non si sarebbero mai fatti, per il Brunello e per il territorio - dei 25 fondatori, 16 erano coltivatori diretti, e solo pochi anni prima mezzadri. Il lavoro da fare era tanto, a partire dal far comprendere che produrre il Brunello è un’arte, mettendoli al passo con i tempi e facendo loro cambiare idea su quella che doveva essere la strada”. Tra i fondatori (Nello Baricci, Silvio Nardi, Siro Pacenti, Gino Zannoni, Lucia Perina, Milena Perina, Orazio Machetti, Elina Lisini, Dino Ciacci, Guglielmo Martini, Emilio Costanti, Sabatino Gorelli, Assunto Pieri, Manfredi Martini, Ivo Buffi, Giovanni Colombini, Rev. Don Leopoldo Celestino Bianchi, Loffredo Gaetani Lovatelli, Giuseppe Cencioni, Bramante Martini, Leopoldo Franceschi, Pier Luigi Fioravanti, Silvano Lambardi, Annunziato Franci e Ferruccio Ferretti), Assunto Pieri ha ricordato come “da semplici contadini, ci affidammo a chi ne sapeva più di noi e dopo lunghe discussioni arrivammo alla fondazione del Consorzio. Con la stessa buona volontà mi auguro che le nuove generazioni producano come si deve, mantendo in piedi il Consorzio perché funzioni bene, e stando attenti al disciplinare, senza cambiarlo, a partire dal rosso”. L’altra grande produzione del territorio, se solo si pensa che con l’arrivo della Docg al Brunello nel 1980 e il riconoscimento della sua Doc, per la prima volta in Italia si potevano produrre due vini dallo stesso vitigno, il Sangiovese grosso, nella varietà chiamata “Brunello”, capace, vinificato in purezza, di dar vita a vini da lungo invecchiamento che solo a Montalcino possono esser prodotti, e di cui Ferruccio Biondi Santi selezionò il clone alla fine dell’Ottocento (BBS/11, Brunello Biondi Santi della Tenuta Greppo, vite n. 11, unico clone aziendale; il punto di riferimento del Consorzio per l’allora codificazione della produzione del Brunello, era proprio l’esperienza di cantina di Biondi Santi, ndr). “Rivolgere lo sguardo al futuro - ha detto Andrea Costanti, tra le famiglie storiche del territorio, e tra i fondatori - vuol dire farlo nel rispetto di figure come Franco Biondi Santi (“guardiano” intransigente della tradizione, ndr) e Nello Baricci (vignaiolo con la schiena dritta, scomparso nei giorni scorsi, ndr), che ci hanno regalato un sogno”.

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