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A volte raccontare un vino come “espressione” di un territorio non basta. Prendiamo il Brunello: se non fosse stato inventato, non ci sarebbe. A WineNews Jacopo Biondi Santi dalla Tenuta Greppo a Montalcino dove è nato, tra passato, presente e futuro

A volte raccontare un vino come “espressione” di un territorio, può non bastare. Prendiamo il Brunello: dietro al vino italiano più conosciuto al mondo c’è, è innegabile, il territorio di Montalcino, da sempre vocato alla produzione di vini di qualità, e ad un vitigno in particolare, il Sangiovese, nella varietà chiamata “Brunello”, pregiata perché capace di dar vita a vini da lungo invecchiamento, che solo qui possono esser prodotti, forti di un clima mite e microambienti molto diversi, per varietà di suoli, orientamenti, alternarsi di colline e vallate. Ma se non fosse stato inventato, il Brunello oggi non ci sarebbe. “Già a fine Settecento, Giorgio Santi, botanico e accademico dei Georgofili, descriveva in modo puntuale il territorio nei suoi “Viaggi in Toscana”. Nei primi dell’Ottocento, fu Clemente Santi che, alla Tenuta Greppo, ebbe l’intuizione di usare il Sangiovese in purezza per un vino da grande invecchiamento, accanto al Moscadello che producevamo da secoli, ottenendo diversi riconoscimenti per il suo vino rosso scelto (Brunello) del 1865”. Nel 1870, il nipote, Ferruccio Biondi Santi, prosegue l’invenzione del Brunello selezionando un particolare Sangiovese grosso (BBS/11, Brunello Biondi Santi, vite n. 11, unico clone aziendale): “abbiamo ancora in cantina due sue bottiglie, Riserva 1888”. Oggi, a ripercorrere con WineNews quell’invenzione, è Jacopo Biondi Santi, alla guida della Tenuta di famiglia dove si custodisce la tradizione del Brunello. Una tradizione in cui la ricerca, in epoche diverse ma incessante, ha avuto sempre un ruolo fondamentale, e che oggi prosegue con al fianco il gruppo francese Epi, della famiglia Descours, proprietario di marchi di alta gamma tra la Champagne e la Valle del Rodano. Tempo fa, proprio dalla Champagne, Valéry Michaux, direttrice della ricerca alla Neoma Business School di Rouen, lanciando una calzante provocazione, disse che non sono solo suolo e clima, elementi ovviamente fondamentali ma da soli insufficienti, a determinare il successo di un territorio del vino, quanto la concentrazione di competenze di vario tipo, in quello che è stato ribattezzato l’effetto “cluster”.

In poche parole, il vino è un prodotto culturale, che nasce dall’incontro tra la terra, la vigna e i vignerons con la cultura, ovvero con le competenze umane - e quindi, anche imprenditoriali - più che dalla bontà di madre natura, o almeno, non solo grazie a questa. Alla fine dell’Ottocento a Montalcino, Clemente Santi, e con lui altri, pochi, illustri proprietari della borghesia di Montalcino (dagli Anghirelli ai Galassi, Paccagnini, Angelini, Costanti, Padelletti), si era convinto che, con le sue teorie agricole ed enologiche, quella terra poteva dare di più, e con essa la vite, a patto di concepirne la cultura in un sistema di conduzione diverso dalla mezzadria. Con lo scoppio della Prima Guerra Mondiale la coltivazione della vite passò in secondo piano, e, negli anni a venire, vennero la fillossera e un indirizzo della politica produttiva del Paese che non favoriva gli sforzi di un’imprenditorialità enoica evoluta. Ma c’è chi, nel pugno di agricoltori locali, aveva le idee ben chiare sul da farsi, come dimostrerà il susseguirsi di riconoscimenti al suo vino: Tancredi Biondi Santi. Figlio di Ferruccio, Tancredi sistematizzò il protocollo di produzione, imprimendo nuovo slancio alla produzione di Brunello, e diventando, di fatto, l’ambasciatore di Montalcino e dei suoi vini. Introdusse la pratica della “ricolmatura” delle vecchie Riserve con vino della stessa annata (la prima volta nel 1927 per le Riserve 1888 e 1891) e fu l’artefice della Riserva 1955, l’unico vino italiano tra i 12 migliori del Novecento per “Wine Spectator”. Con il suo stile di vinificazione unico, lo stesso per decenni, Franco Biondi Santi, figlio di Tancredi, ha rivestito il ruolo di “guardiano” intransigente della tradizione: tutti i vini del Greppo provengono da uve coltivate nei 20 ettari di vigneto di proprietà, e il Brunello Riserva esclusivamente da vigneti di oltre 25 anni di età. Per preservare le caratteristiche del clone di Sangiovese grosso selezionato da Ferruccio, i nuovi vigneti vengono da sempre innestati con gemme prese dalle vecchie piante. Oggi nel “caveau” della Tenuta, ereditando dal padre il ruolo di custode della tradizione, Jacopo Biondi Santi conserva, con grande cura, bottiglie storiche dal valore inestimabile. Nella storia più recente, mezzo secolo fa, il 28 aprile del 1967, all’indomani del riconoscimento della Doc al Brunello, tra le prime d’Italia, il 28 marzo con Decreto del Presidente della Repubblica, alcuni produttori (erano 25 all’epoca) fondarono il Consorzio del Brunello. Nel 1980 arriverà anche la Docg, anni in cui il distretto Montalcino prende forma, grazie a lungimiranti investimenti e una politica locale illuminata sulle sue potenzialità, e il Brunello inizia la conquista dei mercati del mondo. “Il punto di riferimento del Consorzio per l’allora codificazione della produzione del Brunello, era l’esperienza di cantina di Biondi Santi, a partire dal Sangiovese in purezza. Giusto festeggiare 50 anni, ricordando però che il Brunello ha una storia molto più antica, e che questa storia è un arricchimento per tutti quanti”.

“Già tra la fine del Settecento e gli inizi dell’Ottocento indivuavamo le zone dove produrre - prosegue Biondi Santi - tutta la nostra famiglia è sempre stata culturalmente impegnata per il territorio e la tipizzazione del prodotto, per la difesa della sua immagine e del marchio, contribuendo a far emergere Montalcino, proprio grazie alla sua differenziazione, non solo in termine di prodotto legato alle microzone, ma anche di prezzo riconosciuto dal mercato e nella valutazione dei suoi vigneti. Il fil rouge, è la ricerca continua, per tutto il Novecento, fino ai miei studi microzonali”.Ecco allora che, anche nel futuro, incrociandosi ancora con la ricerca, il territorio torna in primo piano: da tempo, Biondi Santi sostiene la zonazione come opportunità per valorizzare il territorio e il suo prodotto di punta, in linea con ciò che chiede il mercato e nell’ottica di una qualità fatta anche di diversità e di maggiore semplicità per il consumatore, fino alla possibilità di arrivare ad una denominazione di origine aziendale, in cui ogni produttore rivendichi le caratteristiche dei propri vigneti. “Uno stimolo per il mercato, perché il consumatore e ancor più il collezionista non stappa un’etichetta solo perché è bella o ha un nome sopra, ma per soddisfare una cultura sempre più elevata: non è più, cioè, solo una questione di prodotto e sensazioni, ma di preparazione culturale. È questo - conclude Biondi Santi - l’unico modo per differenziare ancora di più Montalcino tra i grandi territori del vino del mondo: non ci possiamo fermare, ma andare avanti arricchendoci, altrimenti si rischia di essere scavalcati”.

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