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La minaccia del presidente Usa Donald Trump, che vuole dazi al 100% per 90 prodotti simbolo del made in Italy, mette paura all’agroalimentare. Ma il vino, la voce più importante, non rischia, ed l quadro, dal Canada alla Russia, è più complesso

L’ultima “sparata” del presidente Usa Donald Trump, pronto ad introdurre dazi pari al 100% del valore di centinaia di prodotti importati dall’Europa, ha creato un certo scompiglio nel mondo produttivo italiano. A partire da quello a noi, in un certo senso, più caro, ossia l’agroalimentare, un comparto che ha, nel vino, il suo alfiere, ma che nel complesso è diventata una voce sempre più importante dell’economia italiana. Basti pensare che, nel 2016, l’export dell’agroalimentare italiano ha toccato i 38,4 miliardi di euro, con un balzo, negli ultimi 10 anni, del 73%, come ricordano i dati dell’Osservatorio Nomisma. A quanto ammonta la quota destinata al mercato Usa? Nel 2016 ha raggiunto i 4,56 miliardi di dollari (pari a 4,26 miliardi di euro, ndr), l’11,09% di tutte le spedizioni del comparto, ed il 10,1% dell’intero import americano dal Belpaese, che nello stesso anno ha raggiunto i 45,21 miliardi di dollari (42,35 miliardi di euro, ndr), secondo i dati dello Us Department of Commerce elaborati dall’Ice - Istituto Commercio Estero di New York.
Rimanendo nel wine & food, gli Usa importano da tutto il mondo merci per un valore complessivo di 137,6 miliardi di dollari (129 miliardi di euro, ndr), con la quota tricolore che assume così un peso decisamente relativo, ossia il 3,3%: estremizzando molto, abbiamo più bisogno noi di uno sbocco come quello degli Usa che gli Usa di noi. Eppure, davanti alla Francia, che si ferma ad 1,62 miliardi di dollari, con una quota del 29,2%. La percentuale del vino italiano spedito in Usa scende al 29% se si prendono in esame i volumi: con 323,8 milioni di litri l’Italia è, comunque, al primo posto, con il Cile a seguire, staccatissimo, con 155,6 milioni di litri, il 12,1% dei 1.115 milioni di litri importati ogni anno dagli Usa. I vini rossi rimangono pressoché stabili in valore (+0,2%) mentre perdono leggermente in volume (-1,7%). Per i bianchi il risultato in valore è un incoraggiante aumento del 4,1% che si contrappone ad un -0,6% in volume. In entrambi i casi quindi, gli americani importano meno vino ma con un prezzo medio più alto.
La miglior performance si conferma quella delle “bollicine”, ormai in trend positivo da molti anni. Il segmento degli “sparkling wines” presenta una situazione più complessa in cui i risultati in volume e quantità differiscono al punto che l’Italia domina il mercato per quantità (55,1% di quota di mercato) ma si attesta al secondo posto per valore (31,8% del mercato) dopo la Francia. In termini assoluti, il 2016 ha visto una importazione totale di vini frizzanti in valore di 348,3 milioni di dollari con una crescita del 33,7% dal 2015 e un’importazione in volume di 62,4 milioni di litri, pari ad un aumento del 28,5% sull’anno precedente.
Il quadro, però, è più ampio di così. Tutto inizia con la diatriba sulla carne di manzo prodotta negli Stati Uniti, un terzo della quale è trattata con gli ormoni, sulla quale Bruxelles, nel 2009, ha tolto il veto. Senza che, in realtà, nulla sia cambiato, perché il valore della carne di manzo esportata in Europa è di appena 250 milioni di dollari, meno di quanto ne importi la Corea del Sud: in sostanza, il Vecchio Continente continua ad importare esclusivamente carne senza ormoni. Gli allevatori Usa vogliono una vera apertura del mercato Ue, ma la guerra commerciale, se di guerra si può parlare, è iniziata tanto tempo fa: la lista di prodotti stilata da Trump non è che un aggiornamento di quella stilata da Bill Clinton nel 1999, che prevedeva appunto una tassazione rafforzata per una serie prodotti, sottoposti a regime speciale di importazione fino al 2011, e quindi alla presidenza di Barack Obama.
La questione è complessa, la speranza è quella di trovare una soluzione condivisa, evitando una spirale senza fine e, a ben vedere, senza senso. Del resto, Paolo Barilla, presidente della neonata Unione Italiana Food, afferma “il senso della storia va in un’altra direzione: è interesse di tutti tornare al libero commercio con regole ed equilibri che, sicuramente, si possono definire meglio. La qualità sarà l’elemento che guiderà questo processo”. Anche perché, l’Europa non ha certo bisogno di aprire un altro fronte, questa volta ad Occidente. C’è ancora da superare e risolvere la questione russa, di primaria importanza, e magari lavorare per spuntare accordi migliori con altri Paesi vicini. In Turchia, ad esempio, le barriere tariffarie nel 2016 sono arrivate al 40% sui prodotti agroalimentari, ma sopra al 30% ci sono anche India e Tailandia, mentre il Canada, con cui è sempre in ballo la trattativa sul Ceta, ha ancora un impatto negativo del 15,9% sull’export made in Italy di cibo e bevande.

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