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Nei Comuni del vino italiano (11,7% della popolazione) il tasso disoccupazione è fino a 3 punti più basso della media nazionale. “Un modello per ripensare il Paese”: così Floriano Zambon, presidente Città del Vino che lanciano l’Urban Food Planning

Nei Comuni del vino italiano ci sono più laureati e diplomati e, soprattutto, più lavoro: la riprova, nel fatto che nei territori e nelle comunità dell’Italia, e in particolare nei Comuni più piccoli, del vino il tasso di disoccupazione arriva ad essere fino a 3 punti più basso della media nazionale (all’11,4%; fonte: elaborazione Città del Vino su dati Istat-Censimento 2011). È quanto emerge dal “Libro Bianco delle Città del Vino, 1987-2017 Trent’anni al servizio dei territori del vino”, a cura di Alessandra Calzecchi Onesti per l’associazione che riunisce i Comuni a più alta vocazione vitivinicola d’Italia (a quota 407), da 30 anni, celebrati oggi in Campidoglio a Roma. Da dove le Città del Vino hanno lanciato il loro Urban Food Planning, un nuovo strumento di pianificazione e riorganizzazione dei territori a vocazione enogastronomica, grazie al quale città e campagna saranno più vicine e più integrate.

Spaccato rurale e virtuoso di società italiana, nelle Città del Vino risiede l’11,7% della popolazione nazionale e dove si consuma meno territorio, e dove spesso la cementificazione trova un argine nella vigna. A spingere l’occupazione, a detta dei sindaci, anche l’enoturismo: tra il 2007 e il 2015 i servizi e le strutture turistiche sono in la crescita esponenziale, a +99% contro il 28% del dato italiano. “Siamo un modello per ripensare il Paese”, ha sottolineato il presidente delle Città del vino Floriano Zambon, sindaco di Conegliano. I più importanti Comuni italiani a vocazione vitivinicola sono tutti Città del Vino: Barolo, Barbaresco, Marsala, Montalcino, Montepulciano, Scansano, Conegliano, Valdobbiadene, Pantelleria, solo per citare i più noti. “Nei luoghi con una forte identità - ha aggiunto Zambon - si vive meglio, c’è più lavoro, la qualità della vita è più alta. La vite e il vino sono due elementi attorno ai quali si può ripensare una comunità”. E all’indomani del primato italiano di nazione più sana al mondo nella classifica Bloomberg Global Health Index su 163 Paesi, le Città del vino si qualificano come luoghi del buon bere e buon mangiare con un ricco paniere di qualità certificata (291 tra Dop, Igp e Stg) e tradizionale (circa 5.000 piatti e Pat iscritti all’’Elenco Nazionale del Ministero delle Politiche Agricole).

L’Urban Food Planning è un modello di rioganizzazione di città e territori che sta incontrando un
clima di favore nel mondo anglosassone, in particolare in Canada e Regno Unito. Toronto si è attestata come leader in Nord America, l’inglese Bristol lo pratica dal 2011, mentre in Italia questo filone dell’urbanistica e della gestione ambientale muove i primi passi grazie a un ambizioso progetto delle Città del Vino, illustrato oggi alla cerimonia dei 30 anni. Progetto che rappresenta la
naturale evoluzione dei Piani Regolatori del Vino. L’Urban Food Planning è la nuova frontiera dello sviluppo sostenibile di città e aree metropolitane, un programma complesso che parte da valutazioni semplici e quotidiane: il cibo, al centro della nostra vita, ha evidenti connessioni con l’ambiente e il paesaggio, pone questioni di democrazia alimentare, problemi per i Paesi ricchi (es. diabete e obesità), costi occulti per il sistema sanitario ed è volano per le economie locali ma anche motivo di viaggio e scoperta dei territori. Sulla base di tali implicazioni le Città del Vino stanno promuovendo tra i 407 Comuni associati questo innovativo strumento di programmazione urbanistica e rurale che mette l’agricoltura al centro del futuro. A curare il progetto per le Città del Vino è Davide Marino, professore di Economia del Gusto all’’Università del Molise. “Col nuovo approccio il cibo e l’agricoltura divengono elementi centrali di una città o di una rete di Comuni e territori - ha spiegato Marino - per un nuovo assetto delle funzioni paesaggistiche, economiche, sociali, ambientali, culturali e logistiche. A Milano, Parma e Torino si sta sperimentando la food policy, che qualifica la qualità del cibo, delle mense, ma altra cosa è la pianificazione attorno al cibo, intesa come un’estensione dei piani regolatori”.

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