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I social macinano grandi numeri, e gli esperti di marketing ne hanno fatto la terra promessa anche per il vino - ma funziona? Osservando i numeri, pare di no: o almeno, molto meno di quanto non si pensi, secondo l’analisi di “Wine Intelligence”

I numeri enormi, sia in termini di utenti che di fatturato, del primo vero social network - quel Facebook che da curiosità da campus statunitense è diventato un business di primissimo piano della Silicon Valley - hanno indotto molti a puntare sulle potenzialità dello strumento ideato da Mark Zuckerberg, dentro e fuori al mondo produttivo wine & spirits. Ma, a conti fatti, quanto davvero può funzionare un approccio così generalista nell’aumentare la propria “brand awareness”, e ampliare quindi il numero di consumatori, sia abituali che potenziali? La risposta di Juan Park, analista di “Wine Intelligence” (www.wineintelligence.com), è un laconico - e supportato dai numeri - “non molto”.
L’analisi di Park prende avvio da una domanda ben precisa, ovvero quanto sono capaci i contenuti inseriti su una piattaforma social (Facebook su tutte) di creare un ritorno positivo per il brand, specialmente considerando le generazioni più giovani, ovvero quelle per i quali lo smartphone è uno strumento di interpretazione del reale tout court? Secondo la teoria “classica”, uno strumento che veicola informazioni attraverso il dispositivo che è ormai intimo a sempre più persone sarebbe perfetto per un macrocosmo come il vino, frammentato e di non certo facile interpretazione per i non addetti ai lavori. Ma, prosegue Park, i case studies sul tema non danno molto sostegno a questa tesi: prendendo in esame tre nomi di sicuro “peso” del mondo del vino in quanto a numeri e fatturato, come Barefoot, Villa Maria e Vega Sicilia, e comparando i numeri dei loro follower su Facebook in Usa e Regno Unito con l’insieme dei consumatori che conoscono questi brand, si può facilmente avere una percentuale, anche se spannometrica, di quanti sono i consumatori (potenziali ed effettivi) che allargano a Facebook la loro conoscenza dei brand in questione. E i numeri parlano chiaro, dato che persino il milione di follower di Barefoot negli Usa è appena l’1.7% dei consumatori che conoscono il brand: in altre parole, un post su Facebook dell’azienda finisce col mancare completamente il 98,3% dei consumatori potenziali totali.
Senza contare, perdipiù, che i meccanismi tramite i quali Facebook “adatta” il feed del proprio utente ai suoi gusti (e quindi ai click e alle reazioni che l’utente assegna ai post) non aiutano: seguire un brand non è infatti lo stesso che essere un follower attivo, ovvero soffermarsi sul post, dedicargli attenzione - risorsa finita e sempre più contesa, su Facebook e non - e lasciare un feedback. Secondo le stime di settore, la percentuale di follower che vede un post aziendale è tra il 2 e il 10% del totale, e perdipiù, solo l’11% circa interagisce con il post stesso. Quindi, anche nel migliore dei casi, un’azienda i cui post vengono visti dal 10% del totale dei suoi follower finisce col raggiungere lo 0,5% della sua base di consumatori potenziali, e finisce con l’interagire con lo 0,05% di essi. Stesso discorso, a conti fatti, anche per il Regno Unito, dove i casi di Campo Viejo e di Casillero del Diablo dimostrano che, anche in caso di vendite fenomenali, la percentuale di consumatori che conoscono il brand in questione e che seguono la pagina aziendale non arriva all’1%, fermandosi, rispettivamente, allo 0,7 e allo 0,1%.
L’analisi di Park si conclude, ad ogni buon conto, su una nota tutto sommato confortante: sebbene le percentuali parlino chiaro - e si riferiscono, comunque sia, a consumatori/follower già a conoscenza del brand - quello che dicono non è che i social non sono la chiave di volta del successo commerciale, ma che ad esserlo, almeno al momento, è tutt’altro: per raggiungerlo è essenziale allargare la propria platea di consumatori potenziali, ovvero la “brand awareness”, e se si considera il modo in cui l’hanno fatto Casillero del Diablo e Campo Viejo, gli strumenti usati sono stati ben più tradizionali, tra eventi dedicati allo street food e campagne promozionali sui canonici cartelloni, radio e televisione. Con buona pace del social media marketing come pietra filosofale…

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