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Lo stato dell’arte della zonazione nei grandi territori del vino italiani: dalle “menzioni geografiche aggiuntive” in vigore a Barolo e Barbaresco alle ambizioni del Chianti Classico, dai dubbi del Brunello di Montalcino ai passi avanti dell’Etna

Non è ancora un mantra, ma certo la questione della zonazione sta diventando sempre più di attualità nei grandi territori del vino italiano. L’argomento è, per sua natura, vasto e complesso, ma occorre innanzitutto una precisazione: la zonazione non è una classificazione, l’obiettivo non è la creazione di una piramide qualitativa sull’impronta di quella in vigore dal 1855 a Bordeaux, ma una mappatura del territorio, che individui e racconti zone, colline o meglio singoli vigneti, basandosi su dati analitici relativi ai terreni ed alle uve, in un lasso di tempo relativamente lungo. Nomi che, spesso e volentieri, sono da sempre di uso comune tra i produttori ed i wine lover più scafati: basti pensare ai cru di Barolo e Barbaresco (la prima etichetta con l’indicazione Cannubi è del 1752), messi a sistema da un modello, quello delle “menzioni geografiche aggiuntive”, che ha visto la luce tra il 2007 ed il 2010, dopo decenni di studio e lavoro, individuando 181 “Mga” nel territorio del Barolo, e 66 in quello del Barbaresco, dalla più quotata di tutto il vigneto Italia, Cannubi, dove un ettaro vitato può costare facilmente più di un milione di euro, alla più estesa, Bricco San Pietro, estesa ben 380 ettari.

Il lavoro nelle Langhe, in realtà, è iniziato più di un secolo fa, alla fine dell’Ottocento, quando il geometra Lorenzo Fantini censì i nomi delle famiglie e delle località in cui si produceva Barolo, ma a firmare le mappe ufficiali, insieme al Consorzio di Tutela del Barolo Barbaresco Alba Langhe e Dogliani, è stato il giornalista Alessandro Masnaghetti, che ricorda come “pochi metri di terra fanno la differenza nel carattere del vino. Con le menzioni definiamo una provenienza. Questo è il grande valore aggiunto”. Un progetto portato avanti dall’allora presidente del Consorzio, Pietro Ratti, figlio di Renato, che nel 1985 aveva pubblicato una dettagliata cartina delle sottozone del Barolo, comunemente accettata da enologi e produttori, che oggi sottolinea: “con la messa in commercio della prima annata in cui compaiono le menzioni geografiche aggiuntive, iniziamo un percorso importantissimo. L’appassionato, soprattutto all’estero, ha bisogno di sapere di più”.

C’è ancora lavoro da fare nelle Langhe, ma l’impressione generale, ben sintetizzata, a WineNews, da Carlotta Rinaldi, figlia di Giuseppe, storico vigneron di Barolo, è che sia una rivoluzione positiva. “Sono dell’idea che la zonazione, al momento, sia un aspetto positivo per il mondo del Barolo, ma va ancora migliorata. Le diversità e le caratteristiche - racconta Carlotta Rinaldi - sono talmente grandi che dovremmo approfondire ulteriormente il lavoro fatto fin qui, che mi sembra un po’ lasciato a metà. Ci sono ancora zone che hanno bisogno di una visione più dettagliata dei cru. Dovremmo lavorare collettivamente e ricordandoci sempre che lavorare in una zona così, e con un vitigno come il Nebbiolo, è comunque un privilegio”.

Non un vezzo, quindi, ma una vera e propria necessità, come aveva raccontato appena qualche giorno fa a WineNews la corrispondente per l’Italia del prestigioso magazine Usa “The Wine Advocate”, Monica Larner. “Il nostro lavoro come giornalisti del vino è quello di trovare una chiave narrativa moderna, parlando quindi non più e non solo di territorio, ma di singoli filari, perché il consumatore ormai è diventato talmente sofisticato da conoscere già le grandi denominazioni, spesso le hanno anche visitate di persona, e nel vino cercano di rivivere l’esperienza di quei momenti, in maniera precisa, specifica. Certo - spiega la Larner - c’è ancora un’enorme distanza tra il pubblico Usa e quello asiatico, che è ancora agli inizi, per cui bisogna creare due messaggi diversi per poter spiegare il vino italiano. Ma la specificità del messaggio è più semplice, perché prima si parlava di concetti molto vaghi, quasi astratti, attraverso i quali era difficile raccontare un territorio. Dando informazioni più dettagliate, invece, è più facile disegnare l’impronta digitale di un vino”.

E questo vale anche per la denominazione italiana più conosciuta all’estero, quella del Chianti Classico, dove la nascita della Gran Selezione ha aperto le porte ad una discussione franca, arricchita pochi giorni fa dalla presa di posizione di uno dei protagonisti del territorio, il marchese Piero Antinori. “Noi produciamo vini dedicati a super appassionati - spiega Antinori a “Civiltà del Bere” - per i quali l’approfondimento dei cru è uno stimolo irresistibile”. Una voce che si aggiunge a quelle di Duccio Corsini (Principe Corsini), che a WineNews ha spiegato come il territorio del Chianti Classico si possa, o meglio si debba “raccontare attraverso i suoi vini. Oggi l’unica divisione possibile è quella per Comuni, ma un domani, quando ci saranno i dovuti approfondimenti, si dovrà arrivare ad individuare zone più specifiche, fino anche a vigneti di proprietà dei singoli produttori, un po’ come succede in Borgogna”.

I primi passi, in realtà, sono già stati mossi, anche se di recente. Nel 2014 è arrivata “La nuova Carta generale del Chianti Classico”, firmata ancora da Alessandro Masnaghetti, che ha delineato le diverse zone di produzione, “seguendo i criteri di omogeneità paesaggistica e/o geologica e/o altimetrica”, con l’obiettivo “di riportare per la prima volta su carta zone e toponimi legati alla produzione del Chianti Classico Docg”. È solo un inizio, su cui si innesta, in un certo modo, il lavoro del Master of wine Bill Nesto che, insieme alla moglie Frances Di Savino, ha firmato “Chianti Classico, the search for Tuscany’s noblest wine”, che al suo interno delinea una sorta di zonazione, in cui, ricorda ancora “Civiltà del Bere”, i comuni vengono trattati separatamente in dettaglio e viene isolata ad esempio una zona di San Donato, fino a oggi raramente considerata a se stante.

Rimanendo in Toscana, è piuttosto naturale che la mente voli nelle terre del Brunello di Montalcino, dove di zonazione si parla da anni, ma in maniera ancora timida, con il processo che va avanti a rilento e studi limitati alla dimensione aziendale. Una lentezza su cui esprime perplessità il Conte Francesco Marone Cinzano, proprietario di Col d’Orcia, che spiega a Winenews: “ho sentito tante versioni, c’è chi dice che non siamo in Francia, ma io credo che ormai siamo arrivati ad un livello di riconoscimento internazionale per cui possiamo guardare ai prossimi 100 anni, a come interessare gli appassionati del vino nel futuro. Noi da quest’anno, con l’annata 2011, abbiamo deciso di puntare su un toponimo, vigna Nastagio, così come ci hanno indicato i padri fondatori nel disciplinare del 1966, in cui ci invitavano ad usare gli antichi podere, a sfruttare le condizioni pedoclimatiche del nostro territorio. Credo che sia la strada da perseguire, iniziando da un catasto dei toponimi, considerando che alcuni sono già in uso, e gli altri potranno diventare poi oggetto di dibattito e di confronto tra i produttori. Montalcino - conclude Marone Cinzano - è un territorio vario, facciamo che queste differenze ci uniscano”.

Tra le voci critiche si iscrive invece Riccardo Illy, imprenditore friulano da anni a capo di Mastrojanni, secondo cui “tra Brunello e Barolo ci sono tante differenze: qui, diversamente da Barolo, esistono delle sottozone implicite, il comune di Montalcino è quadrato, e le sottozone sono praticamente i quattro quadranti che vi si possono inscrivere, però non hanno una loro denominazione storica, quindi da questo punto di vista mi sembrerebbe una forzatura. D’altro canto, la tendenza mi sembra quella di puntare sui cru aziendali, e quindi sui nomi della singola vigna: da uomo di marketing mi domando che cosa passi poi al consumatore che si trova di fronte al nome dell’azienda, a quello della denominazione ed eventualmente a quello della vigna se aggiungessimo anche quello della sottozona, il rischio è che si crei solo confusione. In ogni caso, da soci del Consorzio, ci atterremo alle decisioni della maggioranza”.

Un percorso difficile, su cui si innesta, tra gli altri, la divisione territoriale di una delle firme che più a fondo conosce il territorio del Brunello, quella di Kerin O’Keefe, corrispondente per l’Italia del magazine Usa “Wine Enthusiast”, che nel 2012 divise Montalcino in 5 sottozone di produzione, che corrispondono, semplicemente, ai 5 paesi del Comune: Nord ovest e Torrenieri, Montalcino, Tavernelle e Camigliano, Castelnuovo dell’Abate, Sant’Angelo. Un inizio, così come il gran numero di selezioni da singolo vigneto su cui le aziende stanno puntando ormai da qualche anno, consce del fatto che esistono differenze enormi da collina a collina (un esempio calzante è quello della collina di Montosoli), e quasi da filare a filare, ma per farle emergere e raccontarle c’è bisogno di un grande sforzo d’insieme.

Poi, c’è chi di storia enoica alle spalle ne ha molta meno, ma ha tutta l’intenzione di precorrere i tempi, come il produttore Diego Cusumano, tra i protagonisti del rinascimento del vino siciliano, che ha nell’Etna il suo vertice produttivo. Qui, alle pendici del vulcano più alto d’Europa, “ogni contrada è un cru - spiega Cusumano, che ha fondato la propria azienda, in provincia di Palermo, solo nel 2001, con il fratello Alberto, ed oggi produce 2,5 milioni di bottiglie da un totale di 500 ettari vitati - basta una distanza di 2 chilometri tra una vigna e l’altra per avere vini diversi. E noi vogliamo esaltare questa peculiarità che è un unicum, come lo è il fare viticoltura su un vulcano attivo. La cosa più bella dell’Etna, oltre la natura è l’intreccio di contrade con vigne, una diversa dell’altra, che danno vini variegati per concentrazione e consistenza. Nostro obiettivo è identificare - continua Cusumano - e caratterizzare il potenziale produttivo di ogni contrada, così come i francesi hanno fatto coi i cru, e valorizzare così le diverse espressioni del vitigno Nerello Mascalese che alcuni esperti hanno definito il Pinot nero dell’Etna. È una fortuna fare i viticoltori in altitudine lungo le pendici del nostro vulcano, godere di una luce e del bel tempo dieci mesi su 12, e ottenere dall’Etna vini che hanno come punto di forza la longevità; si bevono dopo dieci anni senza brutte sorprese”.

Un bel passo in avanti, per un territorio che appena 5 anni fa, ad aprile 2012, si imponeva al mondo come terroir a tutti gli effetti, portando avanti, già allora, il processo di zonazione che tante altre denominazioni fanno fatica ad affrontare. “Il primo fattore che fa dell’Etna un vero e proprio territorio - raccontava all’epoca, a WineNews, uno dei massimi esperti mondiali di viticoltura, il professore Attilio Scienza- è il fattore pedoclimatico. Le caratteristiche dell’ambiente etneo sono molto più vicine a quelle alpine che a quelle mediterranee. Il suolo è il risultato di diverse eruzioni vulcaniche, che nel tempo hanno prodotto matrici geologiche molto diverse, un suolo che non ha nessun riscontro in Italia e che è foriero, nei vini qui prodotti, di una grande originalità. Il secondo - prosegue il professore dell’Università di Milano - è la cultura viticola dell’Etna. Quando la Francia era colpita pesantemente dalla fillossera, la Sicilia era la regione viticola più produttiva al mondo e molti di quei vigneti erano allevati sulle pendici del vulcano. L’Etna ha una tradizione antica di viticoltura con una peculiarità: la conservazione di molte varietà di antica coltivazione, oggi recuperate, e che, proprio in questo ambiente, erano state preservate dalla fillossera. Ne rimane un’abbondante testimonianza nei molti vigneti franchi di piede che ancora oggi producono uva. Il terzo fattore è il fascino stesso che emana il vulcano e che è stato perfettamente colto da molte delle migliori aziende siciliane e non che qui investono ed hanno investito, individuando un “unicum” non solo qualitativo ma anche d’immagine”.

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