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Tra le sfide del 2017, la rincorsa a Francia e Spagna sul mercato cinese. Dove, secondo il magazine economico Usa “Forbes”, il grande limite del vino italiano è quello di non sapere uscire dai canali commerciali classici, limitati alla ristorazione

Il 2017 è iniziato nel segno dell’incertezza, e non potrebbe essere diversamente: tra qualche giorno Donald Trump assumerà ufficialmente la presidenza Usa, quindi sarà la volta di Olanda e Francia, chiamate a scegliere la nuova guida, e a fine anno, tra ottobre e novembre, il Congresso del Partito Comunista Cinese n. 19 dovrà decidere se confermare o meno Xi Jinping. Cosa c’entra il vino con tutto questo? Molto, specie quello italiano, che ormai deve più della metà dei suoi fatturati ai mercati esteri, ognuno con dinamiche diverse, mai così fragili. Come insegna la Brexit, il pericolo di politiche economiche protezionistiche è dietro l’angolo, ma se in Usa il dollaro forte apre a possibilità persino insperate, dopo un 2016 non semplice, in Europa sarà difficile crescere.
Diverso il discorso sulla Cina, che ha ripreso a correre velocemente, ma dove l’Italia del vino ha accumulato un ritardo enorme sui propri competitor
: ancora alla posizione n. 5, dietro a Francia, Australia, Spagna e Cile, che sono però lontanissimi. E non è migliore la situazione ad Hong Kong, ancora oggi porta d’accesso privilegiata al mercato dell’Estremo Oriente, dove anche gli Stati Uniti ci precedono.
L’Asia, così, rimane poco più di una chimera, ed assume i contorni di un’enorme occasione persa. Come ricorda il magazine di economia Usa “Forbes” (www.forbes.com), quando, nel 2011, ci fu il boom dei fine wine, apparve subito chiaro come per il Belpaese enoico si stessero schiudendo le porte di un mercato potenzialmente sconfinato. All’epoca, infatti, l’orizzonte del wine lover benestante cinese non andava oltre Bordeaux, che con i soli Grand Crus non poteva certo soddisfare le esigenze di un Paese tanto grande. E, invece, più che Brunello di Montalcino, Barolo, Barbaresco e Supertuscan, dal Sassicaia all’Ornellaia fino al Masseto, a crescere è stata la Borgogna, non solo con Domaine de la Romanee-Conti, ma anche con Rousseau, Roumier e Leroy, e le cose non sono andate diversamente se si abbassa lo sguardo verso il gradino inferiore della piramide enoica, perché la Spagna, con Rioja e Tempranillo, ha letteralmente colonizzato il target di Chianti, Valpolicella e Barbera.
Non sarà facile risalire la china, e per farlo è importante capire quali errori siano stati fatti. “Forbes” ne individua uno, fondamentale: in Cina, così come ad Hong Kong, i ristoranti italiani sono molto più popolari di quelli francesi, e decisamente più numerosi di quelli spagnoli, chiaro quindi che il vino italiano abbia un canale privilegiato ed importantissimo.
Il limite, però, sembra essere proprio questo: il commercio enoico tricolore non conosce altri canali se non i propri, quelli fatti appunto da importatori, distributori, ristoratori e sommelier italiani. Ci vogliono, secondo il magazine economico americano, molto più coraggio ed inventiva, sulla scia di quanto fatto dalla Spagna, che ad Hong Kong ed in Cina non ha e non ha mai avuto grandi pezze d’appoggio, ed il mercato, in un certo senso, se l’è dovuto creare, riuscendoci anche con un certo successo.

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