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Tra le “storie” che hanno fatto la “Storia” del vino italiano negli Usa, spicca l’epopea di Renzo Rapacioli: arrivato a New York nel 1960, oggi, a 72 anni, dopo mezzo secolo tra bottiglie e tavoli, è tra i più grandi sommelier del Paese

Italia
Renzo Rapacioli

Quella del vino italiano in America è una storia che nasce da lontano, anzi, da lontanissimo, ed è legata a doppio filo alla storia della migrazione italiana Oltreoceano, come tante storie di successo. Non quella della seconda metà dell’Ottocento o dei primi anni del Novecento, quando partirono in milioni, dal Nord come dal Sud del Paese, ma a quella seguita alla fine delle Seconda Guerra Mondiale, quando il boom economico stava arrivando, ma non per tutti. È in questo groviglio che si inserisce una storia nella Storia, quella di Renzo Rapacioli, decano dei sommelier di New York, italianissimo, ma in Usa ormai da più di sessant’anni e ancora sulla cresta dell’onda, tra i tavoli del “Barbetta”, storico ristorante italiano, o meglio piemontese, della Grande Mela, in auge dal 1906. Qui, Rapacioli si destreggia tra 2.000 etichette diverse, ma non è nato sommelier, e la sua storia, come detto, arriva da lontano, e si intreccia a quella del vino italiano in America dando vita ad una vera e propria epopea.
“La mia famiglia - racconta Renzo a WineNews - aveva un’osteria in un paesino sull’Appennino piacentino, San Michele, circondata dai campi e dagli animali. Mia madre lavorava in cucina con le mie tre sorelle, mio padre, io ed i miei quattro fratelli ci dividevamo il lavoro tra la sala ed i campi. Siamo negli anni ’50, avevo 14 anni, la gente, d’estate, veniva dalla città per passare qualche giorno in campagna, ma d’inverno era diverso, si faceva fatica. Nel 1958 ci rendemmo conto che non era sufficiente per costruire un futuro, e parlando con un cuoco emigrato a New York, Silvio Schiavi, decidemmo di andare nella Grande Mela. Così - continua Rapacioli - nel 1959 mia madre, mio padre ed i miei fratelli maggiori partirono per l’America, lavorando nella ristorazione e nell’edilizia. Nel gennaio del 1960, mia madre tornò a San Michele, per portare a New York anche me e i miei fratelli minori. Dopo pochi mesi andai a lavorare al Laurent, sulla 56esima strada, grazie a mio fratello Giacomo, che ci lavorava sin dal suo arrivo in America. All’epoca, la figura del sommelier era quasi inesistente, solo quattro ristoranti ne avevano uno, tra cui proprio il Laurent: Franco Canova”.

Scegliere gli Stati Uniti, però, vuol dire anche servirli nel momento del bisogno, e così, “nel 1964, diventato ormai cittadino americano, mi chiamarono alle armi e mi spedirono in Germania: fu una fortuna, perché la maggior parte dei militari venivano mandati in Vietnam. Nel 1966, quando la situazione in Vietnam si fece ancor più tesa, ebbi la fortuna di tornare a New York ed al Laurent, dove, nel frattempo, trovai un nuovo sommelier, francese, presidente della Sommelier Society of America (di cui lo stesso Rapacioli diventerà presidente, tra il 1981 ed il 1984 e ancora tra il 1990 ed il 1993, ndr), Françoise, che mi fece fare il mio primo corso, durato tre mesi, dopo di che, inaspettatamente, mi lasciò il suo posto: è iniziata allora, nel 1966 la mia carriera di sommelier, e sono rimasto nello stesso ristorante fino al 1990, avendo l’onore, tra i primi ristoranti americani, di vincere, grazie alla nostra carta dei vini, il “Wine Spectator Grand Award” (nel 1985, ndr). È stata una grande esperienza, la lista dei vini era quasi completamente francese, con qualche vino americano e pochissimi italiani”.
Si chiude, così, una lunghissima parentesi, durata praticamente 30 anni, Renzo nel 1990 ha 46 anni, ed inizia una nuova avventura, “al 21 Club - racconta ancora il sommelier - dove sono rimasto per 6 anni. Era un posto elegante e molto rinomato, dove cenavano presidenti ed attori, con una cantina “segreta” che custodiva grandi bottiglie. È qui che ho conosciuto Paolo Secondo, proprietario del ristorante Barolo, a Soho, dove, a differenza delle mie precedenti esperienze, si servivano solo vini italiani, che iniziavano ad essere molto apprezzati in America. Anche la clientela era diversa, c’erano soprattutto giovani appassionati di wine & food, ed era sempre pieno, centinaia di persone tra pranzo e cena. Un modo di lavorare del tutto nuovo e diverso, anche nel servizio del vino, con una lista da 1.500 etichette, per lo più Barolo, Barbaresco e Brunello: la cosa mi colpì e mi incuriosì molto, e a Pasqua del 1996 inizia a lavorare al Barolo, anche per tornare alle mie origini”.
Nata come un’avventura, la storia di Rapacioli al Barolo dura ben 17 anni, “fino al 2013, quando l’affitto del locale diventò così alto da dover chiudere i battenti. Dopo 53 anni di lavoro nella ristorazione, ho pensato di ritirarmi, ma alla fine di settembre mi chiama la signora Maioglio, proprietaria del ristorante Barbetta, aperto nel 1906, il primo ristorante italiano di New York. Avevamo già collaborato, e sapendo che non stavo lavorando mi ha coinvolto come consulente, ma dopo appena due settimane, affascinato da un ristorante tanto bello e con una cantina eccezionale, che mi ricordava molto il Laurent, ho deciso di rimanere. Ed oggi, con molto orgoglio, sono ancora qua”.

Una storia lunga mezzo secolo, in cui Rapacioli ha vissuto in prima persona “la popolarità del Lambrusco (che, di fatto, ha aperto la via del mercato Usa al vino italiano, ndr), tra cui spiccavano le bottiglie di Cantine Riunite, ma anche del Moscato d’Asti. Ma il nostro Lambrusco era diverso, molto più buono di quello prodotto per i consumatori americani. Per me i vini italiani hanno la peculiarità unica di esprimere le qualità di ogni Regione in modo diverso, con uve autoctone che non si coltivano altrove, ed è esattamente ciò che provo a spiegare ai miei clienti: ogni territorio ha i suoi vini, è una grande fortuna per il vino italiano ed il suo successo odierno. Ancora negli anni ’80, quando al Laurent vincemmo il “Wine Spectator Grand Award” il 90% dei vini in lista era francese, insieme a qualche americano, perché la gente iniziava a chiedere Chardonnay, Cabernet e Merlot californiani. Di italiani, allora, c’erano solo Valpolicella, Verdicchio, Soave, Bardolino e poco più, è solo negli anni successivi che abbiamo iniziato a mettere in lista i primi Brunello ed i primi Barolo, fino all’evoluzione dei Super Tuscan, con il Tignanello, diventato subito popolarissimo”.

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