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“Il vigneto è come uno Stradivari: il suo valore sta in come lo si suona”. Parola di Aubert de Villaine, co-proprietario di Romanée-Conti, dal seminario sul terroir di scena a Barolo, con il professor Jacky Rigaux e l’enologa Christine Vernay

“Anche il più grande Stradivari del mondo è solo un pezzo di legno, il suo valore sta in come lo si suona. Funziona così anche nel vigneto”. Aubert de Villaine, co-proprietario e co-direttore del Domaine de la Romanée Conti, ha aperto così la sua “lezione” a Barolo, protagonista del seminario “Il terroir nelle sue espressioni storico-culturali e degustative”, che lancia il Progetto Vino di Collisioni, il festival agro-rock che torna dal 14 al 18 luglio a Barolo, di cui WineNews è media partner (www.collisioni.it). Al centro del convegno, il terroir “concetto nato negli anni ‘80 che ha avuto il suo apice nel riconoscimento Unesco dei climats di Borgogna”, come ha ricordato il professor Jacky Rigaux dell’Università di Borgogna, che ha introdotto gli interventi di Aubert de Villaine e dell’enologa Christine Vernay (Georges Vernay). Terroir che richiama un altro grande concetto, quello di “climat”, particolarmente caro a de Villaine, che lo racconta a WineNews come “l’incontro tra la terra, la vigna e i vignerons con la cultura. In Borgogna il climat non ha lo stesso significato che trovate su un dizionario: quando si parla di climat non dovete solo guardare il cielo ma anche la terra, è una parcella antica con un sottosuolo e un microclima importanti. Il climat si ripercuote nel vino e lo rende unico. La forza della Borgogna è raccontare il vino così da secoli”.
Tornando all’idea di terroir, invece, nasce la degustazione geo sensoriale teorizzata da Rigaux: “mi onoro di aver iniziato a pensare che dentro un vino c’è la sua terra. È un tipo di degustazione - spiega Rigaux - che coniuga il gusto con la conoscenza dei terroir. Per sapere dove andiamo dobbiamo saper da dove arriviamo: le due Guerre hanno fatto molti danni, anche nella viticoltura francese. Sono morti molti giovani che avrebbero preso in mano le aziende. Dico grazie agli americani che ci hanno liberato, portando purtroppo anche l’idea di incrementare le coltivazioni, con l’enologia che rischiava però di chiudere la viticoltura in un angolo”. Il professor Rigaux ricorda quindi Henry Jayer ed altri produttori, che “con i loro vini non mascheravano il sapore dell’uva e della terra. Chiesi quale fosse il segreto, e mi risposero, semplicemente, che lasciavano fare alla natura. Ho imparato da loro che bisogna rispettare il terroir. Le uve e la terra - continua Rigaux - danno quello che ritroveremo nel vino. Con Jayer e gli altri ho cominciato a studiare la vita del suolo. Poi ho cominciato a studiare la biodinamica in una concezione un po’ diversa come quella praticata da Selosse. La degustazione sensoriale, che mi ha insegnato Jayer, riporta in primo piano le sensazioni tattili del vino, la parte minerale. L’olfatto ci interessa, ma solo come retrogusto nasale. Usiamo termini per parlare del vino molto vicini alla geometria. Le zone cerebrali che ci fanno capire la zona tattile di un vino - conclude il professore dell’Università di Borgogna - sono le stesse che guidano il tatto delle mani: viscosità, rotondità, grassezza, petulanza ovvero l’energia del vino”.

È Ian D’Agata, giornalista, direttore scientifico di Vinitaly International e direttore artistico del Progetto Vino di Collisioni, a raccontare il passaggio successivo, mettendo a confronto due casi: il terroir in Italia e il terroir in Ontario, Canada. “Già nell’antico Egitto si studiavano i terroir, mentre già nel 1395 Philippe Le Hardi eliminò il Gamay sui suoli granitici, e nel XVII secolo il primo che zonò le migliori aree di produzione fu Cosimo III De Medici, in Toscana. Il terroir - spiega Ian D’Agata - è l’insieme di numerosi fattori. Soprattutto il terroir è legato alla coltivazione di pochi vitigni, cosa difficile da applicare in Italia, vista la ricchezza di tipologie di vitigni”. Ma il vino, come ricorda Aubert de Villaine, è “prima di tutto un prodotto culturale dove confluisce tutta l’esperienza di generazioni. È singolare che oggi ci sia un interesse così forte per la parcellizzazione delle zone. È una risposta alla globalizzazione. La nostra viticultura è forte perché ha resistito a 2000 anni di storia ma è anche molto fragile perché deve resistere all’industrializzazione”.


Dietro ai Climats du vignoble de Bourgogne, dal 2015 Patrimonio dell’Umanità Unesco, ci sono prima di tutto uomini, donne e perseveranza: “Io li definisco posti unici - spiega il co-proprietario del Domaine della Romanée-Conti - che abbiamo il dovere di custodire. Dobbiamo molto agli uomini e alle donne. Il climat è l’incontro tra la terra, la vigna e i vignerons con la cultura. In Borgogna il climat non ha lo stesso significato che trovate su un dizionario. Quando si parla di climat non dovete solo guardare il cielo ma anche la terra. È una parcella antica con un sottosuolo e un microclima importanti. Il climat si ripercuote nel vino e lo rende unico. La forza della Borgogna è raccontare il vino così da secoli. La grande ricchezza geologica - continua De Villaine - si esprime nel vino. Il clima in Borgogna è duro, con i vigneti tra 350 e 400 metri di altitudine, ed è solo grazie al vento caldo che porta il Rodano dal Mediterraneo che riusciamo a far crescere la vite. Per certi versi un territorio ostile, ma che uomini e donne hanno trasformato in valore, inoltre la Borgogna non ha mai avuto grandi sbocchi commerciali: anche questa è stata una delle sue forze, bisognava fare dei vini longevi. I grandi vini di Borgogna sono oggi il risultato di scelte di perseveranza di fedeltà a un percorso intrapreso. E questo è quello che abbiamo detto all’Unesco in 1500 pagine”.

Un’altra storia di terroir, decisamente più recente ma altrettanto vincente, è quella di Christine Vernay, enologa del Domaine Georges Vernay, la cui famiglia, qualche decennio fa, ha salvato il Viognier nel nord della Côtes du Rhône, a Condrieu. “La doc Condrieu è nata nel 1940 - esordisce l’enologa - e all’epoca c’erano solo 6 ettari di Viognier. Nel ‘67 la prima espansione nel Sud: 10 ettari. Oggi sono 180 ettari (su un totale di 262) distesi su una collina di 15 chilometri, da cui si producono 800.000 bottiglie, grazie al lavoro di appena 65 vignerons imbottigliatori. Condrieu è un climat semicontinentale: piove spesso, il clima è temperato, terreno granitico e suolo caldo. In media abbiamo 11 gradi, tutte le vigne esposte sono protette dai venti freddi del nord e coltiviamo solo Viognier: le pietre dei muretti - conclude Christine Vernay - catturano il sole e la trasmettono nella vigna di notte. È il granito che conferisce il carattere al vino, la sua mineralità. E l’uomo cos’è, se non l’interprete di quello che può dare il terroir?”.

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