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Dopo il B-Bs 11, il clone di Sangiovese della griffe del Brunello Biondi-Santi, Barone Ricasoli, firma del Chianti Classico, registra i suoi, il CRA-BR 1141 ed il CRA-BR 1872. Scienza: “l’ideale sarebbe che ogni azienda selezionasse i propri cloni”

Italia
L’ultima novità nel Registro Nazionale delle varietà di vite, i cloni di Sangiovese di Brolio

Nel Registro Nazionale delle varietà di vite del Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, sono registrate centinaia di varietà di uva da vino, ognuna delle quali con diversi cloni, registrati perlopiù dai grandi vivai del Belpaese, come Rauscedo, o dalle facoltà di Agraria delle Università, da Milano a Firenze, ma anche dalle singole Regioni, per un totale di 1.778 cloni diversi. Ma ce ne sono alcuni, una parte minoritaria ma di straordinaria importanza nel panorama ampelografico d’Italia, creati e spesso registrati dalle singole aziende. Il più famoso è il clone di Sangiovese B-Bs 11 (Brunello Biondi Santi, vite n. 11, ndr), che identifica dal 1978 la produzione di Biondi-Santi, storica griffe del Brunello di Montalcino. Ed è sempre dalla Toscana che arriva l’ultima novità nel Registro Nazionale delle varietà di vite: i cloni di Sangiovese di Brolio, che arrivano da un vecchio vigneto di Barone Ricasoli, nel cuore del Chianti Classico, piantato negli anni ’60 e già in quel tempo utilizzando solo gemme provenienti dalle vigne storiche, condotte e lavorate da secoli e secoli. Sono due cloni distinti, il CRA-BR 1141 (acronimo del Centro per la Ricerca in Agricoltura - Barone Ricasoli) con il numero 1141 che vuole ricordare l’arrivo e l’insediamento della famiglia Ricasoli a Brolio, e CRA-BR 1872 , l’anno in cui il Barone Bettino Ricasoli normò la formula del Chianti.
Come detto, però, esistono altri cloni legati al lavoro delle aziende, come i tre di Sagrantino registrati da chi, storicamente, il rosso umbro l’ha riscoperto, ripensato e rilanciato, Caprai, che nel 2003, insieme all’Università di Milano, ha tipizzato l’UNIMI - CAPRAI -25 ANNI, l’UNIMI - CAPRAI - COBRA e l’UNIMI - CAPRAI - COLLEPIANO. E ancora, un lavoro straordinario in tal senso è quello fatto negli ultimi anni dall’azienda calabrese Librandi, che ha registrato ben quattro diversi cloni di Gaglioppo (Librandi CVT 75, Librandi CVT 80, Librandi CVT 164 e Librandi CVT 165), ed altrettanti di Greco Nero (Librandi CVT 38, Librandi CVT 41, Librandi CVT 48 e Librandi CVT 68), oltre al clone del rarissimo Pecorello Bianco (Librandi CVT 6). Altri cloni “aziendali” sono i due di Moscato Bianco firmati dalla ricerca della multinazionale delle bevande Martini & Rossi, MartiniRossi CVT G3 e MartiniRossi CVT G9.
Il ruolo delle aziende, del resto, è destinato ad essere cruciale nella ricerca e nella costituzione di nuovi cloni: è qui, tra i filari degli imprenditori enoici del Belpaese, che si “nascondono” i custodi della storia viticola d’Italia, quelle antiche viti di cui si parla tanto perché custodi di peculiarità genetiche uniche, vera cifra del concetto stesso di terroir. Qualche esempio? Tra i 114 cloni di Sangiovese, il vitigno di cui esistono più declinazioni, ce ne sono ben 6 registrati anche grazie al lavoro di Castello Banfi (tra i costitutori al fianco di Istituti di ricerca ed Università di tutto il Belpaese), leader del Brunello di Montalcino (BF 10, BF 30, TIN-10, TIN-50, JANUS-10 e JANUS-20), e 2 costituiti da un altro big del Brunello, Col d’Orcia (SG-CDO-4 e SG-CDO-6).

Fino ad ora, però, la ricerca non è stata certo in prima linea nel recupero e nello studio della ricchezza varietale del vigneto Italia. “Il Sangiovese, ad esempio, è stato a lungo trascurato dalla ricerca - racconta a WineNews il professor Attilio Scienza, docente di Enologia all’Università di Milano - tanto che le prime selezioni le abbiamo fatte noi, insieme a Castello Banfi, la prima cantina ad investire nella selezione clonale aziendale, percependo il bisogno di avere dei cloni di Sangiovese che, infatti, usa ancora oggi. Siamo alla fine degli anni Settanta, quando i produttori si erano già accorti di come il Sangiovese fosse una varietà particolarmente complicata e sensibile alla variabilità:
la viticoltura che nacque dalla fine della mezzadria era di scarsa qualità, ed anche la nascita dei Super Tuscan, in qualche modo, ne fu una conseguenza - spiega il professor Scienza - perché sono la risposta di alcune grandi aziende per produrre un vino sì a base Sangiovese, ma con vitigni che allora venivano definiti miglioratori, come Cabernet e Merlot. Un altro tentativo fu quello di togliere dal taglio classico del Chianti i vitigni bianchi, per farne poi il Galestro. Ma alla base mancava la qualità proprio del Sangiovese, ecco perché le aziende più attente iniziarono una selezione clonale al loro interno. Fu un lavoro lungo, noi a Castello Banfi per portare a termine la selezione delle serie JANUS e TIN ci abbiamo messo 12 anni, non scegliendo un super clone, ossia su un Sangiovese che potesse rappresentare un po’ tutta la caratteristica della varietà, ma un clone debole, selezionando delle tipologie capaci di riproporre in vigna una variabilità ordinata, in grado di adattarsi al meglio al terroir ed alle condizioni ambientali, in termini di acidità del terreno, esposizione, e quant’altro. Fu - continua Scienza - un progetto di selezione ed interazione con l’ambiente, ed è questa la direzione che dovrebbe prendere la ricerca delle aziende: l’obiettivo deve essere quello di interpretare la variabilità del vitigno. Del resto, la stessa Toscana è l’esempio di come diversi terroir incrocino diverse varietà di Sangiovese. L’impegno delle aziende, però, è recente, nasce dalla presa di coscienza di avere in vigna prezioso materiale genetico, sulle vecchie viti, che rischia di sparire, perché non è presente nei cataloghi dei vivaisti. L’ideale - conclude il professore di Enologia - sarebbe che ogni azienda selezionasse i propri cloni, espressione dell’azienda stessa e del territorio. Le Università, volendo, hanno tutti gli strumenti, ed i cosi sarebbero tutt’altro che proibitivi”.
Ma la storia non finisce certo qui, perché un contributo importante è arrivato, negli anni seguenti, anche dal lavoro dell’Università di Bologna, che dai vigneti storici della Fattoria dei Barbi, sempre a Montalcino, ha selezionato due cloni, omologati, come ricorda il professore di Viticoltura all’Università di Bologna Cesare Intrieri, “nel 2014, mantenendo nella sigla del clone l’acronimo dell’azienda FdB (Fattoria dei Barbi), l’acronimo CAB (Coltivazioni Arboree Bologna ) e l’iniziale di Montacino (M), che si chiamano, appunto, Fdb CAB M 17 e Fdb CAB M 43”.

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