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Valpolicella, le Cooperative: “facciamo qualità, molte Famiglie dell’Amarone d’Arte comprano”. Allegrini (presidente Famiglie): “il problema sono prezzi troppo bassi”. Il 3 febbraio udienza Consorzio-Famiglie. Lonardi (Bertani): “serve senso civico”

Italia
Valpolicella, crescono le polemiche

È un territorio ricco, florido e in crescita, la Valpolicella. Eppure il 3 febbraio sarà un momento decisivo per il territorio, visto che sarà di scena al Tribunale delle Imprese di Venezia l’udienza sull’opposizione del Consorzio al tentativo di registrazione in sede Ue, e all’utilizzo tout court, del termine “Amarone” da parte della Famiglie dell’Amarone d’Arte, 12 aziende storiche con molti tra i marchi più importanti (Allegrini, Begali, Brigaldara, Guerrieri Rizzardi, Masi Agricola, Musella, Speri, Tedeschi, Tenuta Sant’Antonio, Tommasi, Venturini e Zenato) che potrebbe, in qualche modo, scrivere un precedente significativo sul tema della tutela dei “marchi collettivi” del vino italiano. E sui cui nei giorni di “Anteprima Amarone 2012” sono arrivate prese di posizione nette e decise. Ad alzare i toni sono state le cooperative, chiamate in causa dalle Famiglie perchè “ree”, in estrema sintesi, di perseguire logiche di quantità più che di qualità, che svalutano il prodotto.
Ma per Confcooperative Verona, “in Veneto, Regione numero uno in Italia per il comparto vitivinicolo, la cooperazione è oggi il più importante punto di riferimento dell’intero comparto vitivinicolo. Un primato che viene non solo dal fatto di riunire oltre 6.000 agricoltori - si legge in una nota - ma anche da ciò che essa rappresenta per le aziende vinicole private con cui collabora, dando vita a importanti sinergie produttive e commerciali. A riprova di quanto sopra, grazie agli eccezionali standard qualitativi raggiunti dalle Cantine Cooperative di Verona, anche alcune aziende del blasonato gruppo delle Famiglie dell’Amarone d’Arte si affidano a queste realtà per la fornitura di un’importante quota dei loro prodotti a Denominazione Valpolicella imbottigliati. Quota che, negli ultimi tre anni, si è attestata intorno al 26%, raggiungendo addirittura il 44% se si considera il solo vino Valpolicella. Questo significa che una bottiglia su quattro, dei vini Doc o Docg della Valpolicella, è il frutto delle uve raccolte dai soci cooperatori delle Cantine di Verona”.
“Tra le Famiglie dell’Amarone d’Arte - ribatte la presidente, Marilisa Allegrini - ci sono aziende che commercializzano solo i vini prodotti con uve dei vigneti di proprietà, patrimonio della loro storia, e altre più strutturate che acquistano prodotti dal “sistema” Valpolicella, in cui le cooperative hanno un ruolo importante. Non c’è niente di male, lo consentono le regole di un mercato libero, complesso e che appartiene a tutti. Quello che non condividiamo è una politica, seguita da alcuni, che svilisce la denominazioni con prezzi allo scaffale talmente bassi che devono far riflettere tutti”.

Focus - Andrea Lonardi, direttore esecutivo Bertani Domains: “il territorio e la denominazioni sono beni di tutti, serve un “senso civico” che vada al di là della rappresentanza degli interessi della proprio a azienda”
“Credo che la guerra mediatica e la rincorsa a tirar fuori dall’armadio degli altri lo scheletro del nemico sia la cosa peggiore che possiamo fare per la nostra denominazione. Quando si usa la denominazione si usa un bene comune. Un valore del quale nessuno può sentirsi il legittimo proprietario o colui che lo ha creato”. Così, a WineNews, Andrea Lonardi, direttore esecutivo Bertani Domains, del gruppo farmaceutico Angelini, che mette insieme alcuni dei più bei nomi dell’enologia italiana come Bertani, azienda simbolo, a detta di molti, della Valpolicella, ma anche Puiatti (Collio), Val di Suga (Montalcino), Tre Rose (Montepulciano), San Leonino (Chianti Classico) e Fazi Battaglia (Castelli di Jesi), 500 ettari vitati, 4 milioni di bottiglie prodotte all’anno, 24 milioni di fatturato, di cui il 65% è dato dall’export, e 160 dipendenti. Che commenta così lo scontro tra Famiglie dell’Amarone d’Arte e Consorzio della Valpolicella, che vedrà un passo decisivo il 3 febbraio, giorno dell’udienza fissata al Tribunale di Venezia e che vede il Consorzio opporsi al tentativo di registrazione in sede Ue, e all’utilizzo tout court, del termine “Amarone” da parte della Famiglie (12 aziende storiche con molti tra i marchi più importanti Allegrini, Begali, Brigaldara, Guerrieri Rizzardi, Masi Agricola, Musella, Speri, Tedeschi, Tenuta Sant’Antonio, Tommasi, Venturini e Zenato).
“Mai Biondi Santi, a Montalcino - spiega Lonardi - avrebbe chiesto maggiore potere decisionale sulla denominazione in quanto attore principale nella costruzione del successo del Brunello. Nelle doti dei grandi c’è anche quella di lasciare non solo al mercato il giudizio finale ma soprattutto credere e lavorare per il bene collettivo non sentendosi mai creditore di questo valore aggiunto regalato agli altri. Ogni qual volta si parla della denominazione, come si é fatto in questi giorni, si dovrebbero tralasciare i campanilismi ma soprattutto bisognerebbe evitare di fare il nome delle proprie aziende... Dobbiamo quindi imporci un “senso civico” grazie al quale ci dobbiamo calare all’interno di una comunità composta di attori che hanno nature e attitudini diverse, e che hanno però il dovere di rispettare le regole imposte dalla denomazione. É compito dei Consorzi e delle istituzioni svolgere attività di controllo ma anche legiferare in merito”.
“Ci sarà sempre chi vende a poco e chi invece - aggiunge Lonardi - finge di essere una “family estate” ma poi produce conto terzi milioni di pezzi. Che lo faccia nelle cantine sociali o presso altre strutture private poco importa, non c’é bisogno di ribadirlo. Ciò che conta è che lo scontro nel nome della denominazione non porta né vinti né vincitori tra i produttori, ma solo all’indebolimento della denominazione. Spero che il senso civico ci guidi a riunirci in un tavolo di concertazione nel quale dovremo essere valpolciellesi e non rappresentanti della singole azienda o del singolo club. I successi personali alcune volte sono transitori e legati alla singola generazione imprenditoriale che non sempre si tramandano all’infinito. Ciò che può e deve rimanere immutato é, invece, il valore della denominazione territoriale che é un bene comune che va protetto ma anche allo stesso tempo valorizzato. Saper coniugare esigenze di nature diverse non potrà che essere realizzato attraverso la guida ferma del senso. Noi produttori siamo “semplici” usufruttuari di un bene comune che è la denominazione territoriale. Il bene della denominazione territoriale si costruisce in gruppo accettando di farne parte in primis, ma anche, accettando di non essere sempre i primi della classe. Altrimenti finiamo come la politica auto celebrativa che non ha bisogno della comunità per eleggere il suo rappresentante. Ognuno poi a casa sua sarà sempre convinto di avere i migliori vigneti, il migliore tecnico e la migliore gestione e comunicazione, e quindi di essere quello che fa il vino migliore. Ma é giusto così! Ecco, se avessi la “bacchetta magica”, spererei che portasse senso di appartenenza e cultura civile, che facesse capire che la denominazione territoriale é un bene collettivo che va rispettato e per il quale é dovere civico confrontarsi per difenderlo e valorizzarlo senza mai usarlo per interessi diretti di confronto e denigrazione”.

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