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Le “Menzioni Geografiche Aggiuntive” di Barolo e di Barbaresco sono ancora un unicum nell’Italia del vino. Un modello che si pone al vertice della piramide qualitativa, e che dovrebbe essere preso ad esempio anche dalle altre grandi denominazioni

Italia
Le Menzioni Geografiche Aggiuntive di Barolo e Barbaresco sono ancora un unicum nell’Italia del vino ...

Giusto un anno fa, con la presentazione della cartografia ufficiale del Barolo e del Barbaresco (che fotografa i “cru” delle due Docg) e l’entrata in commercio delle prime “menzioni geografiche aggiuntive” per i Barolo 2010 (i Barbaresco a partire dall’annata 2007), simbolicamente nel Bel Paese enoico “irrompeva” un vero e proprio nuovo paradigma per comprendere al meglio due zone a grande vocazione. Graficamente riassumibile in una sigla “mga”, ovvero “menzioni geografiche aggiuntive”. Un modello, per molti aspetti, che purtroppo non sembra aver registrato il successo meritato, visto che altre zone d’eccellenza del Vigneto Italia, ancora non sono riuscite neppure a mettere in piedi un dibattito sulla materia, arenandosi, molto spesso, in vaghi progetti di “zonazione” per lo più destinati a rimanere nei cassetti delle sedi dei Consorzi.
Eppure, le “menzioni geografiche aggiuntive” di Barolo e Barbaresco rappresentano a tutti gli effetti un’ottima base di partenza, semplicemente, ad esempio, per sottolineare ulteriormente il valore di una denominazione, tenendo conto in modo non astratto dei tempi in cui viviamo e degli interessi economici che ruotano attorno a vini come il Barolo e il Barbaresco. Insomma, un modello in qualche modo esportabile in altri terroir dell’Italia enoica.
Per arrivarci ci sono voluti una ventina di anni, ma, alla fine, anche con tutte le possibili critiche e/o considerazioni, il Barolo e il Barbaresco (ma anche il Dolcetto di Diano D’Alba che sta completando l’iter per il riconoscimento), grazie al lavoro meritorio del Consorzio di Tutela Barolo Barbaresco Alba Langhe e Roero, con la consulenza del giornalista Alessandro Masnaghetti (autore del testo “Barolo MGA - L’Enciclopedia delle Grandi Vigne del Barolo”), possono utilizzare questo strumento. Uno strumento chiaro e fruibile a tutti i produttori vinicoli delle zone interessate che ha sistematizzato la pratica finora diffusa in Langa, ma non adeguatamente regolamentata, di indicare in etichetta la menzione geografica di riferimento, un passo importante perché questi “luoghi” sono definiti nel loro numero e delimitati nella loro estensione. In prima battuta serve a tutelare maggiormente la tracciabilità delle bottiglie, ma ha anche delle implicazioni non secondarie sul “peso” dei vini in termini di marketing e commercializzazione. Una sorta di “imprimatur” ulteriore con cui il consumatore finale si trova a confrontarsi.
Le menzioni geografiche aggiuntive, dunque, sono aree delimitate ufficialmente all’interno della denominazione (a grandi linee possono essere equiparate al termine francese “cru”). Tanti appassionati e consumatori conoscono quelle più famose, ma in realtà tutto il territorio di produzione del Barolo e del Barbaresco è mappato con nomi precisi. A differenza dei cru francesi, le menzioni geografiche aggiuntive non connotano vini di qualità superiore, bensì indicano l’origine più precisa dei vini prodotti e commercializzati. L’introduzione delle “menzioni geografiche aggiuntive” nei Disciplinari di produzione dei due vini piemontesi consente quindi di definire sempre meglio la piramide qualitativa, di esaltare il legame tra prodotto e territorio, di segmentare meglio il mercato e di avere la massima chiarezza in etichetta a vantaggio del consumatore. In etichetta, quindi, oltre al Comune di provenienza, si potrà trovare indicata la menzione geografica aggiuntiva, e, in alcuni casi, anche la vigna, ulteriore elemento distintivo di qualità (quest’ultimo elemento è stato inserito nella legge 164 del vino italiano del 1992, e mantenuto successivamente, e rappresenta l’ultimo gradino della scala gerarchica delle Doc e Docg. Voleva essere la creazione di un “cru” all’italiana ma il suo uso si è esteso molto poco).
Detto di passaggio, le “menzioni geografiche aggiuntive” rappresentano anche una ottima base di partenza per rispondere alla domanda dei consumatori di conoscere quali sono le aree maggiormente vocate, quelle che per costanza qualitativa possono “oggettivamente” essere pagate di più. Insomma, si può vedere anche la possibilità futura di stabilire una vera e propria graduatoria delle zone, e non solo dei produttori, per consentire un’ulteriore salto di valorizzazione alle Docg Barolo e Barbaresco. Per di più, come dimostrato da anni in Francia, una tale gerarchizzazione non comporterebbe una diminuzione di prezzo per le etichette dei produttori che non possiedono cru di primo livello o che, per loro scelta, decidano di non utilizzare la classificazione e basarsi esclusivamente sulla notorietà del proprio nome. Peraltro, c’è anche da considerare l’imponente lavoro di “Zonazione del Barolo” svolto da diversi organismi coordinati dalla Regione Piemonte (1994-2000) che potrebbe essere un’ulteriore elemento di supporto a sviluppi futuri ancora più importanti.
La genesi delle “menzioni geografiche aggiuntive” non è stata immediata, evidentemente. Sono previste dalla Legislazione sui vini a denominazione come una possibilità per indicare zone più ristrette all’interno di una stessa denominazione. Nella zona del Barolo si è a lungo parlato delle cosiddette “sottozone” ma queste possono essere normate dal Ministero delle Politiche Agricole solo se sono sufficientemente ampie, con parecchi produttori e se hanno caratteristiche decisamente differenti dall’area complessiva. Sia pur impropriamente, potremmo dire che le “sottozone” furono create quando il Nebbiolo del Piemonte fu suddiviso tra Gattinara, Barolo, Barbaresco, Ghemme, Lessona... . I nomi geografici aggiuntivi alla denominazione Barolo sono da molto tempo presenti sulle migliori etichette ma l’assenza di un sistema che permettesse di evitare l’abuso del loro utilizzo ha spinto il Ministero delle Politiche Agricole a chiedere di definire esattamente i confini e gli ettari di ogni nome, così da poterne conoscere la produzione ogni anno tramite la Dichiarazione Vendemmiale.
Questo lavoro è stato guidato dal Consorzio di Tutela in collaborazione con i Comuni e con la Provincia, ma è durato anni perché si è trattato di tracciare confini e ordinare nomi che spesso avevano riferimenti di mappa imprecisi o erano contesi tra diversi proprietari o, ancora, potevano stringersi ed allargarsi secondo rivendicazioni storiche incerte. Lo stesso lavoro è stato fatto per il Barbaresco, e si è concluso nel 2007, prima di quello del Barolo, che è del 2009, perché si agiva su un territorio meno ampio. Per svariate ragioni storico-politiche e geografiche non si è mai potuto fare una vera classificazione sul modello dei cru francesi di Borgogna, ma nel tempo si sono andati affermando “nomi” che comprendono le qualità del terroir e quelle della tecnica utilizzata in vigna ed in cantina, nonché la capacità del produttore di saper affermare sul mercato il suo lavoro.
Il primo che tentò una prima mappatura fu il geometra Lorenzo Fantini, nel 1879. Da allora, in molti si sono dedicati a “frazionare” le colline di Barolo e Barbaresco: da Domizio Cavazza (1904) a Vignolo Lutati (1928), da Renato Ratti, che ha pubblicato nel 1985 una dettagliata cartina delle sottozone del Barolo, comunemente, accettata da enologi e produttori, fino a Slow Food che nel 1990, ha pubblicato l’“Atlante delle grandi vigne di Langa”. Ma il punto di svolta vero e proprio che avvia questo percorso è stato il 1961, quando compaiono anche se non i primi in assoluto, Barolo con in etichetta la zona di provenienza delle uve. Un fenomeno che ebbe il suo apice negli anni ’80 e che portò, durante gli anni ‘90, ad una richiesta di regolamentare la miriade di nomi usati in etichetta, arrivata a conclusione con la modifica del disciplinare del Barolo del 2010. Insomma, come dimostrano ampiamente questi documenti, tutti i comuni della zona del Barolo avevano in qualche modo i loro cru, ben noti da tempo. Le uve di questi vigneti erano sempre contese, spesso promesse l’anno precedente, quasi sempre giocate sul rialzo del prezzo, tra l’ambizione neanche tanto velata di possedere qualcosa di speciale. Come abbiamo visto, a partire dagli anni ’60 i cru del Barolo sono stati ben evidenziati sulle etichette, pur non essendo la cosa allora del tutto ortodossa. Ma qual è il quid che distingue un cru da una zona meno nobile? Uno potrebbe essere il fatto che sono i luoghi dove hanno acquistato le uve, da sempre, i mediatori e i produttori. Dove la domanda ha sempre superato l’offerta e dove i prezzi sono sempre stati più elevati. L’altro è, evidentemente, rappresentato dall’insieme delle caratteristiche tecniche del vigneto: ideale esposizione, somme termiche, natura particolare del terreno, altre condizioni microclimatiche.
L’assetto attuale delle “menzioni geografiche aggiuntive”, vede dunque la zona del Barolo con 181 (di cui 11 comunali): la più grande è Bricco San Pietro (Monforte) con 380 ettari; la più piccola è Bricco Rocche (Castiglione Falletto) con 1,4 ettari. Nel Barbaresco ci sono invece 66 “menzioni geografiche aggiuntive”: Canova è la più grande con 158 ettari; Rabaja Bas è la più piccola con 1,8 ettari.
Da ultimo guardiamo da vicino, per fare un esempio, ai numeri del Barolo. 11 i comuni dove si produce, quasi 2.000 ettari vitati per una produzione complessiva intorno ai 13 milioni di bottiglie. Quasi l’80% della produzione destinata ai mercati esteri.
Una carta d’identità che ricorda immediatamente quella del Brunello di Montalcino. E allora, perché non pensare all’applicazione della lezione del Barolo anche in questa zona di eccellenza della Toscana? Guarda caso si tratta dell’altro vino più importante d’Italia che, però, sembra “meno importante”, anche per l’assenza di un piano adeguato sulle “menzioni geografiche aggiuntive”.

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