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Forum “Il Sole 24 Ore”: per arrivare a 50 miliardi di euro di export agroalimentare le aziende italiane insieme devono puntare su qualità, certificazioni internazionali, pochi prodotti e mercati, distribuzione, un grande progetto fieristico nazionale

Per arrivare a 50 miliardi di euro export agroalimentare in 5 anni, dai 34,3 del 2014 (e contenere 60 miliardi di dollari l’anno di Italian Sounding nel mondo) le aziende italiane devono puntare sulla qualità, meglio se di pochi prodotti competitivi, senza accettare compromessi e investendo sulle certificazioni internazionali, selezionare i mercati a più alto potenziale, presidiarli da sole o in maniera consortile - le dimensioni restano un problema, con le imprese made in Italy troppo piccole e che non fanno squadra - e, non da ultimi, costruire una piattaforma distributiva e puntare su un grande progetto fieristico nazionale. È emerso dal Forum Food & Made in Italy n. 3 “Nuovi scenari per l’agroalimentare” de Il Sole 24 Ore, di scena il 30 giugno a Milano. I dati parlano chiaro: il 2014 per l’export agroalimentare italiano è stato un anno positivo, con un tasso espansivo del +2,7%, superando la Spagna (22 miliardi di euro di export 2014), ma restando dietro alla Francia (42 miliardi) ma anche alla Germania, il cui export nel food & beverage vale il doppio, ovvero oltre 55 miliardi di euro, così come la propensione all’export dell’industria alimentare tedesca si attesta al 30%, contro il nostro 20.

Le parole di Luigi Pio Scordamaglia, presidente di Federalimentare, fanno riflettere: “è essenziale - ha detto - tutelare l’italianità e la qualità dei nostri prodotti anche nella Ue e nei mercati internazionali bisogna riuscire a entrare nelle catene distributive che già esistono. Non “demonizzando” l’Italian Sounding, ma valorizzando, in maniera positiva, la qualità, il gusto e l’originalità dei nostri prodotti”. Anche perchè, sottolinea Il Sole 24 Ore, il parmesan del Wisconsin o il prosciutto crudo canadese sono prodotti perfettamente legali nei rispettivi mercati. “Come è legale - ha ricordato Scordamaglia - il 90% del falso made in Italy negli Usa, mercato cresciuto di oltre il 6,4% l’anno scorso, sfiorando i 3 miliardi”. Negli Usa, ha ricordato il presidente dell’Ice, Riccardo Monti, “abbiamo stretto accordi con grandi catene distributive per aumentare i volumi dei prodotti italiani che già ricevono e per far loro importare ex novo una quota di eccellenze Dop e Igp. Toccheremo 4 Stati: Texas, Illinois, New York State e California”.

E se, a livello internazionale, per Lamberto Biscarini, senior partner di Boston Consulting Group, “bisogna sviluppare un made in Italy “distintivo”. Concentrarsi su pochi prodotti ma di qualità, facendo anche una scelta di portafoglio. Stabilire in quali segmenti abbiamo le economie di scala e le dimensioni per poter competere sui mercati internazionali e lì concentrarsi. Mentre le medio-piccole devono puntare su alcuni specifici mercati verso cui sono in grado di mantenere un elevato standard di servizio”, dentro i confini nazionali, per l’ad di Fiera Milano, Corrado Peraboni, “serve un grande progetto fieristico nazionale”. “I tedeschi hanno 200 milioni di euro l’anno per le fiere tedesche - ha detto Duccio Campagnoli, presidente di Fiera di Bologna - lavoriamo coi tedeschi e aggreghiamoci per andare all’estero”.

“Basta con i finanziamenti a pioggia o ai soliti noti. Valorizziamo gli artigiani e andiamo a vendere sul nostro mercato domestico, che è quello europeo. Piccolo è bello? No, è utile” è il pensiero da sempre, ribadito al forum, dal produttore Angelo Gaja, su un mercato del vino che guarda alla finanza, dal private equity alla quotazione, e sulle piccole imprese capaci comunque di farsi apprezzare all’estero, dove “i nostri vini riescono ad abbinarsi con facilità alla cucina etnica”. Ma all’estero, ha spiegato Sandro Boscaini, presidente di Federvini e di Masi Agricola, non basta più l’intraprendenza dei singoli e se si escludono una trentina di aziende tutte le altre sono troppo piccole per poter affrontare il mercato globale. Gli strumenti finanziari non mancano, se si pensa all’Ocm, ma come ha sottolineato Silvana Ballotta, ceo di Business Strategies, spesso le aziende piccole hanno difficoltà a utilizzarne i fondi, suggerendo che “in alcuni casi sarebbe più produttivo concentrarsi sulla propria territorialità e investire sull’accoglienza”. E dunque sulla propria storia, sul territorio, sulla propria identità, tutti aspetti che, ha detto Marilisa Allegrini, della celebre griffe dell’Amarone, agli stranieri interessano più del grado di acidità o dei profumi di un vino.

Un settore, quello del vino, che, com’è noto, vale oltre 5 miliardi di euro di export, sulla spinta del successo delle bollicine, Prosecco in testa, e sempre guardando a livello internazionale, se nelle aste mondiali, ha sottolineato, l’ad di Sotheby’s Italia Filippo Lotti, continuano a farla da padrone Bordeaux e Borgogna, la bella notizia è che il valore medio delle nostre bottiglie è cresciuto del 47%, di fronte a un calo del 29% delle super bollicine francesi.

Boscaini, la cui azienda di famiglia ha debuttato in Borsa, nel listino Aim, si è dichiarato stupito del fatto che la finanza sia ancora guardata con sospetto dal mondo del vino. Proprio la finanza e le reti di impresa, è emerso, sono le strade prioritarie da seguire per superare i vincoli dimensionali che attanagliano le imprese italiane dell’agroalimentare rafforzando la loro capacità di stare sui mercati e la competitività dell’intero settore. “Forse c’è una nuova attenzione del comparto alimentare nei confronti della Borsa, ma soprattutto perché è quest’ultima che rispetto al passato sta garantendo costi burocratici e indiretti più accessibili” ha detto Vincenzo Cremonini, ad del Gruppo Cremonini,
quotato da oltre 10 anni nel segmento Star e il cui core business è la vendita ai ristoranti internazionali di prodotti alimentari italiani di eccellenza. Da quando è quotata, Campari, ha aggiunto l’ad di Campari, Robert Kunze Concewitz, ha effettuato 23 acquisizioni. Una diversa e maggiore consapevolezza, secondo il presidente e ad del fondo Clessidra, Claudio Sposito, c’è anche nei confronti del private equity, l’apertura verso il quale è spesso decisiva nel traghettare le aziende verso la quotazione in Borsa.

Le reti di impresa ed aggregazioni tra aziende dello stesso comparto, costruite attorno a un obiettivo comune, infine, ha detto Aldo Bonomi, vicepresidente per le Reti d’Impresa di Confindustria, “possono consentire di superare le frammentazioni tipiche del settore alimentare garantendo al tempo stesso agli imprenditori quell’autonomia e indipendenza che spesso finiscono per ostacolare un gioco di squadra”. Ma anche queste non possono fare a meno del supporto del mondo del credito. “Un sostegno tutt’altro che scontato - ha spiegato Gianandrea Bertello, responsabile marketing corporate Bnl di Bnp Paribas - anche perché le aziende che aderiscono al contratto di rete non possono, ad esempio, emettere obbligazioni. Ma per questo abbiamo messo a punto alcuni strumenti finanziari ad hoc che sono basati sul factoring che possono prevedere tanto la gestione del rischio quanto la sola cessione dei crediti”.

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