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Si fa presto a dire Usa: il primo mercato del mondo per il vino italiano è sognato da molti produttori ma, soprattutto per i piccoli, non è di facile conquista. Ma le cose cambiano, e l’avvento dei Millennials sta stravolgendo il quadro

Se è vero, come è vero, che gli Stati Uniti sono - e non da oggi - la vera “casa lontano da casa” del vino italiano, almeno in termini commerciali, altrettanto vero è che il mercato a stelle e strisce non è certo facile da approcciare, vuoi per le sue dimensioni che per le peculiarità dovute alla sua struttura federale, senza considerare i rapidissimi cambiamenti dovuti all’uso delle tecnologie informatiche nel paese che ha dato i natali a Internet.

Ma, di converso, questi stessi fattori, se ben studiati, possono diventare anche punti di forza per un piano di approccio ai wine lovers americani, come ha raccontato a Vinitaly Steve Raye, Managing Partner di Brand Action Team/Bevology Inc.: al contrario, sono anche una sorta di “equalizzatore” del marketing, che può benissimo destabilizzare equilibri che a prima vista possono sembrare ormai troppo sbilanciati a favore dei grandi player. Innanzitutto, la distribuzione è si un fattore fondamentale - ed è pacifico che a scaffali vuoti qualsiasi progetto di marketing non possa avere senso - ma dopo essersi assicurati una controparte affidabile in questo senso c’è da affabulare il consumatore: e il punto chiave, secondo Raye, è che non è possibile essere “tutto per tutti”. Al contrario, è più che sufficiente essere “qualcosa per qualcuno”, identificando un target ben identificato, in una precisa fascia di età e in una locazione geografica altrettanto precisa. E, non sorprendentemente, anche Raye è dell’opinione che non abbia molto senso competere sul prezzo con chi del proprio price point fa il proprio cavallo di battaglia, perché “è nella fascia compresa tra 10 e 20 dollari che il vino italiano può dare il massimo senza svendersi, al punto che la crescita massima, il 66%, è proprio in questo segmento”.

Ma è la demografia il singolo fattore da tenere più presente: anche se i baby boomers continuano a rappresentare un confortevole zoccolo duro, sia per i retailer classici che per l’e-commerce, la generazione dei Millennials ha collettivamente raggiunto almeno i 21 anni di età, ovvero il limite per il consumo legale di alcoolici. Sono tanti (70 milioni), con del reddito spendibile in tasca, anche se assai inferiore a quello dei “boomers”, ma in compenso “con tanta più voglia di sperimentare. E vogliono farlo ora, just-in-time, e lo dimostra il loro uso massiccio dei servizi di consegna immediata, che nelle aree metropolitane permettono di monitorare i consumi non solo città per città, ma, volendo, quartiere per quartiere. Per non parlare dell’e-commerce e delle piattaforme di informazione sul vino che nascono e proliferano come esclusivamente digitali, tramite le quali questa generazione sperimenta e scopre”- molto più che con le tradizionali e blasonate riviste di settore. E con l’ulteriore bonus che, per quanto riguarda il commercio elettronico, trovare un distributore in un singolo stato può permettere al produttore di servirne quasi 30, letteralmente porta a porta. Capitolo social network? Raye non ha dubbi: “uno strumento essenziale per coinvolgere emotivamente il consumatore singolo, a patto che lo si faccia con una narrazione vera, sincera, non artefatta dell’azienda e della sua vita quotidiana”. Anche perché “tramite quel tipo di visibilità, si può coinvolgere non solo un singolo consumatore, ma nel caso in cui si riesca a convincerlo col prodotto, e a farne parlare, diventerà possibile attirare l’attenzione della sua intera rete sociale, con un effetto a cascata”.

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