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Da Amerigo Antinori ritratto dal Pontormo alla Cantina-Palazzo nel Chianti Classico, dal Tignanello “perfetto” ai Monaldeschi e Filippeschi del Castello della Sala nel “Purgatorio” di Dante: è nata la pubblicazione culturale “AC Antinori Collection”

Tutto ha inizio da un ritratto: quello del Pontormo di Amerigo Antinori, rinascimentale guerrafondaio più che vinattiere, “giovane allora molto favorito in Fiorenza” come ricorda il Vasari, per arrivare alla nuova Cantina nel Chianti Classico, o nuovo “Palazzo”, ultima committenza in 700 anni di storia; ma anche dal vino “alimento, non complemento di piacere come oggi” nella dieta chiantigiana, fino al Tignanello perfetto, “quello dell’annata 1975” secondo Piero Antinori, vino-mito il cui nome vuol dire in etrusco Zeus-Giove, e alla stellata Osteria di Passignano, dove si mangia ancora “alla chiantigiana, però 2.0”. È quello che si può leggere e consultare in “AC Antinori Collection. Il Ritratto - The Portrait”, volume n. 1 di una pubblicazione con cadenza annuale (AA.VV.), che vuole essere uno strumento di cultura e approfondimento territoriale, tra arte, storia, contemporaneità e curiosità, “vissute” dalla storica famiglia fiorentina, che ha molto da raccontare oltre l’imprenditoria vinicola. Spesso narrate in prima persona dagli stessi protagonisti della famiglia, il Marchese Piero Antinori in primis, e le figlie Albiera, Alessia ed Allegra, dalle stanze del rinascimentale Palazzo Antinori di Giuliano da Maiano in Via Tornabuoni (acquistato da Niccolò Antinori nel 1506), architetto raccomandato agli avi da Lorenzo il Magnifico, o dalle celebri tenute della griffe. Accanto ad interventi di giornalisti, studiosi, imprenditori, critici, fotografi, filosofi e storici dell’arte, chiamati a narrare, ognuno secondo la propria materia, un aspetto dell’universo culturale e territoriale attorno alle cantine - da Tignanello, a Badia a Passignano, al Castello della Sala - ma più che al vino che vi si produce, a ciò che dei suoi territori è più culturalmente rilevante.
Una pubblicazione da conservare in biblioteca (Cinquesensi editore, italiano/inglese, prezzo di copertina 40 euro), e da consultare per conoscere storia e curiosità su tematiche che ruotano attorno all’arte, all’architettura, al cibo, al vino, alle civiltà antiche, alle bellezze dei territori, alla cultura più in generale. Si va da un “ritratto” della committenza del volume, nel capitolo “Piero Antinori l’identità di un nome” del giornalista e scrittore Leonardo Castellucci, in cui si racconta di Amerigo Antinori, quel celebre “giovanetto” ritratto dal Pontormo nel 1500 (opera conservata alla Pinacoteca di Palazzo Mansi a Lucca), che abbracciò le armi, anziché dedicarsi ai commerci di famiglia, contro i Medici, e della grande mostra di Palazzo Strozzi a Firenze dedicata al grande pittore nel paragrafo firmato dall’esperto d’arte Michele Tavola di cui l’opera è stata l’immagine. Ma da Niccolò di Tommaso Antinori, iniziatore della fortuna imprenditoriale di famiglia nel 1500 a veri e propri ritratti di famiglia su tela in clima idilliaco com’era uso dei tempi nel 1800, sono molte le opere che vedono protagonisti gli Antinori attraversano i secoli della storia dell’arte.
Passando, attraversando i secoli, all’ultima importante committenza “autobiografica” degli Antinori, dal 1179, anno in cui in un piccolo atto di passaggio di proprietà di terreni ed immobili, appare per la prima volta la famiglia: “La nuova Cantina in Chianti Classico”, “forma estetica del fare impresa” come la definisce lo storico dell’arte Aldo Colennetti nel capitolo dedicato alla grande opera architettonica pensata secondo quel concetto di “natura e artificio” del famoso saggio di Gillo Dorfles, alla base di tutti i progetti della famiglia, e che riassume in sé città e campagna, Firenze ed il Chianti, tradizione e respiro internazionale. Cantina che non è solo luogo di produzione, spiega l’archistar Marco Casamonti dello Studio Archea Associati, ma “la nuova e, al tempo stesso, antica immagine dell’azienda che tra le sue mura trasferisce la propria sede negli uffici, i propri ricordi nel museo, ed il proprio futuro nelle avanzate strutture produttive dove la tecnologia e l’innovazione si fondono con una tradizione ed una storia che risale al primo Rinascimento”.
A raccontare il vino “più prezioso” è lo stesso Marchese Antinori, in “Tignanello i 40 anni di un grande italiano”, secondo il suo personale ed appassionato racconto (“Quando iniziai ad immaginare quelli che sarebbero stati i cosiddetti Super Tuscans, fu anche perché i rossi di allora, non soddisfacevano più neanche me”), della sua invenzione con l’enologo Tachis (di cui il volume raccoglie gli appunti nelle memorie della figlia Ilaria), la consulenza di Peynaud e l’auspicio di Veronelli: “sì, era tempo di un nuovo Chianti”. Tra le memorie, anche quella di Giorgio Pinchiorri, su come ebbe “la fortuna di assistere al varo di questo grande vino! Era una sera di fine estate, eravamo qui, nel cortile dell’Enoteca ...”. “Un’Accademia per la valorizzazione della cultura”, è l’Accademia Antinori, che per celebrare i 30 anni dalla prima vendemmia del Tignanello, ha realizzato la mostra al Museo Civico Giovanni Fattori di Livorno sul pittore toscano macchiaiolo Egisto Ferroni, contribuendo a rilanciarlo, assieme alle sue celebri opere a tema agreste. Infine, del Tignanello, in “Gli etruschi di Tignanello” di Lorenzo Benini, si racconta di come l’origine del nome risalga al nome etrusco di Zeus-Giove “Tinia”.
Vino che di un territorio come il Chianti è l’anima e che fa parte di quel detto “mangiare alla chiantigiana”, stereotipo dietro cui si celano le radici più profonde della “civiltà del cibo del Chianti” come racconta il giornalista Paolo Pellegrini in “Badia a Passignano la civiltà del cibo in Chianti”. Mentre a Firenze la corte dei Medici strabiliava per la sontuosità dei suoi banchetti, nella campagne la dieta chiantigiana era composta di pane duro, fagioli, cavolo nero, il poco olio che c’era, la carne dell’aia - polli, oche, piccioni e, più tardi il “maialino di Sant’Antonio” (la pregiata Cinta Senese) - e poi la polenta con l’aringa, baccalà, pappa al pomodoro, ribollita, le penne strascicate, i salumi, i formaggi, e il vino, che resterà alimento fino agli anni ’60-’70 del ’900. Serviti in trattorie, osterie, ristoranti, fino alla rivoluzione degli anni ’80 che coincide con l’inizio dell’avventura dell’Osteria di Passignano di Antinori, 1 stella Michelin, trasferita alla Badia dove “mangiamo alla chiantigiana. Però 2.0”.
C’è poi un luogo dove “i vini bianchi vengono spontaneamente come in nessuna altra parte del globo e posso dirlo - dice Renzo Cotarella, ad Antinori, alla giornalistaRaethia Corsini nel capitolo “Castello della Sala di cavalieri, di rocche e di vigne” - visto che con Antinori facciamo bianchi in tutto il mondo”. Quel luogo è il medievale Castello della Sala, fortezza del XIV secolo e dimora maestosa di feudatari e signori bellicosi (“Vieni a veder Monaldi e Filippeschi”, protagonisti di una guerra tra fazioni finita persino nel “Purgatorio” dantesco, è il capitolo dello storico Gian Luigi Daccòche chiude il volume), dove un lunedì mattina del 1986, racconta Cotarella, di cui il Castello fa parte dei ricordi di infanzia essendo originario di quei luoghi, “scesi in cantina per un assaggio: trovai che alcuni tappi delle barrique erano stati espulsi. Il vino bianco stava facendo la fermentazione malolattica: quando questo avveniva nei vini di Orvieto la si considerava una tragedia. Ero disperato. Invece fu la chiave di volta nello stile del Cervaro. Si chiarì un percorso che avevamo paura di fare. Ricordo di aver pensato: è questa cantina che ha aiutato il vino a darci il segnale”.
Info: www.editore.cinquesensi.it - www.antinori.it 

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