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Il concentratore: scorciatoia enologica o soccorso tecnologico?
di Franco Pallini

Ogni volta che soltanto viene evocata la parola concentratore, pare che si parli di una macchina diabolica. Il concentratore è automaticamente identificato come un facile mezzo per costruire grandi vini a poco prezzo. E spesso questo è vero. Fino a qualche decennio fa, il concentratore non era una macchina enologica molto diffusa. Veniva usata soprattutto nelle aree di produzione delle uve da taglo, giacché la legge autorizza la concetrazione per l’ottenimento di mosti da aggiungere al vino nelle annate più sfortunate. L’alta circolazione di questi prodotti, provenienti da zone vitivinicole non propriamente dedite alla qualità, ha successivamente indotto la diffusione di questa macchina anche nelle regioni a più alta vocazione vitivinicola. Il che, a ben guardare, ha prodotto un effetto positivo, aumentando la salvaguardia delle produzioni di territorio, troppo spesso “inquinate” da mosti alloctoni. Il mercato esige che il vino esca ogni anno e la concentrazione permette di salvare in qualche modo le annate che altrimenti risulterebbero compromesse.

Da questo punto di vista (ma solo da questo) tale pratica enologica è a tutti gli effetti corretta e legale. In ogni caso, la concentrazione non è un rimedio esente da ulteriori problemi. A grandi linee, il macchinario funziona con la logica del sottovuoto che porta il mosto a temperature vicino allo zero. La pressione usata per creare il vuoto riscalda parte del mosto, provocando così l’evaporazione della parte acquosa. Pertanto, il concentratore concentra tutto ciò che trova nel mosto. Aumentano così non solo gli zuccheri, ma anche gli acidi e tutte le altre componenti, anche quelle non necessariamente gradite. L’arricchimento di un vino con mosto concentrato può quindi costringere il produttore ad una conseguente correzione, ad esempio, dell’acidità, moltiplicando così gli interventi invasivi sul vino. Purtroppo, invece, si ricorre a questo tipo di “aiuto” sempre più spesso. Sono i casi in cui tale intervento diventa soltanto un “body building” di cantina, per ottenere vini da “tagliarsi” preferibilmente con il coltello e capaci di soddisfare le richieste del mercato o i gusti di illustri personaggi come Robert Parker e i suoi epigoni parkerizzati.

Ma il concentratore si appresta già a diventare un pezzo da museo dell’enologia. La nuova frontiera si chiama “osmosi inversa”, una pratica ancora priva di regolamentazione e per alcuni totalmente illegale (anche se abbondantemente usata). Si tratta di macchine che, lavorando ad alta pressione, fanno passare il vino attraverso membrane in grado, selettivamente, di bloccare determinati componenti (l’acqua, i polifenoli, etc.). A differenza del concentratore, che ha i suoi contro, questa tecnologia presenta, per il produttore con pochi scrupoli, solo vantaggi. Con tali macchine è infatti possibile mutare totalmente, e a costi contenuti, la composizione di qualsiasi vino.

A noi piace pensare che la qualità di un vino resti indissolubilmente legata al terreno, al clima, al vitigno e all’uomo. L’uso scriteriato della concentrazione o dell’osmosi inversa sbilancia l’equilibrio tra questi fattori a favore dell’uomo. I mezzi che mette a disposizione la tecnologia sono, appunto, soltanto dei mezzi e non possono essere condannati aprioristicamente. Ma gli abusi devono essere impediti o perlomeno ostacolati e, i produttori, per primi, ma anche chi opera nell’informazione, dovrebbero tenere conto di queste possibili degenerazioni. Anche i consumatori hanno un ruolo fondamentale: sta a loro decidere se saranno i prodotti “artificiali” a prevalere, o quelli più rispettosi della terra.

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