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“Incosciente chi si bea della qualità alimentare di un prodotto senza chiedersi se a monte c’è distruzione dell’ambiente e sfruttamento del lavoro”: così Carlo Petrini lancia “Menu for Change”, la prima campagna mondiale sul rapporto tra clima e cibo

Non Solo Vino
Carlo Petrini a Cheese lancia Menu for Change, nuova campagna di Slow Food

Per la prima volta - ma a questo Slow Food ci ha abituati - una campagna di comunicazione e raccolta fondi internazionale evidenzia la relazione tra produzione alimentare e clima che cambia. È “Menu for Change”, l’ultima, ma solo in ordine di tempo, battaglia della Chiocciola nella lotta al cambiamento climatico, lanciata ieri da Carlo Petrini da “Cheese 2017”, che chiude oggi a Bra l’edizione n. 20, in cui gli Stati Uniti del presidente Usa Donald Trump, primo tra i negazionisti del climate change, sono il Paese ospite. “La sfida più tremenda per il mondo intero - ha detto il fondatore e presidente di Slow Food - è la violenza dei cambiamenti climatici, che richiede immediati cambiamenti collettivi e individuali. Ci sono intere popolazioni, come è accaduto in Kenya, dove gli allevatori a causa della siccità hanno perso tutti i loro animali, non potranno più vivere nelle loro terre. A chi si domanda perché un’associazione che si occupa di cultura alimentare dovrebbe promuovere una campagna sulle questioni del cambiamento climatico, posso rispondere questo: è incosciente chi si bea della qualità alimentare di un prodotto senza chiedersi se a monte c’è distruzione dell’ambiente e sfruttamento del lavoro”.
Tutti noi, ha aggiunto Petrini, siamo responsabili di quello che mangiamo e anche di quello che coltiviamo: “il più grande terreno da coltivare è la lotta allo spreco. Tutte le istituzioni internazionali ripetono che siccome nel 2050 saremo 9 miliardi e mezzo “bisogna produrre più cibo”, ma già oggi abbiamo cibo per 12 miliardi di viventi. Significa che un’ampia parte di quello che viene raccolto, trasformato e venduto finisce nella pattumiera”. C’è un intero paradigma agricolo e agroalimentare da cambiare, mentre la produzione va concentrandosi nelle mani di pochi. Un esempio drammatico viene dalla filiera del pomodoro: “tonnellate di pomodori arrivano in Italia dalla Cina, vengono lavorati e colonizzano i Paesi africani, invasi da scatole di concentrato prodotto da aziende con nomi come Gino e la bandiera tricolore sul barattolo. Questi marchi simil-italiani stanno distruggendo le produzioni agricole africane perché hanno prezzi perfino più bassi delle loro. Il risultato è che i giovani abbandonano la terra e vanno a lavorare come schiavi nei campi del Sud Italia. Siamo tutti chiamati in causa, le piccole azioni moltiplicate per milioni di persone possono cambiare il mondo”.
A questi paradossi del mercato si aggiunge l’impatto devastante del cambiamento climatico. Lo raccontano le testimonianze dirette dei più colpiti, gli agricoltori e allevatori del Sud del mondo. Tumal Orto Galibe, pastore del Nord del Kenya, ha spiegato che negli ultimi quindici anni perfino l’aspettativa di vita si è ridotta. “Nelle comunità dei pastori abbiamo visto un aumento delle patologie. Ed è sempre più difficile adattarsi a un clima che cambia nell’arco di mesi mentre prima cambiava nei decenni: nell’aprile di quest’anno, in una sola notte di piogge improvvise e torrenziali ho perso più di 230 capi di bestiame”. Un produttore di formaggi della delegazione cubana ha raccontato che l’isola ha già ceduto terreno al mare ed è stata battuta di recente da cinque diversi uragani, la cui potenza è correlata alla crescente temperatura delle acque. L’uragano Irma possedeva una potenza pari a 7.000 miliardi di watt (circa 2 volte le bombe usate durante la Guerra Mondiale) e ha lasciato il 40% della popolazione priva di elettricità, danneggiando la parte più turistica del Paese.
Non si tratta certo di impressioni individuali, perché ad avallarle ci sono i dati scientifici: “siamo in chiusura della seconda estate più calda e della quarta più secca dal 1753, in Italia e in buona parte dell’Europa mediterranea” ha ricordato il climatologo Luca Mercalli. Dopo il record del 2003, tutte le estati sono state più calde della media. Con conseguenze che l’agricoltura e l’alimentazione pagano fino in fondo: “un recente studio francese ha esaminato gli effetti del cambiamento climatico sulle razze animali e i formaggi. Anche in alta montagna l’aumento delle temperature sta cambiando il modo di condurre gli alpeggi e i malgari sono costretti a tornare in pianura anche con un mese di anticipo. Siccità e parassiti arrivano dove finora non si erano mai visti”. Finora questi sconvolgimenti hanno avuto un impatto disomogeneo: alcune aree dell’emisfero Nord ne hanno addirittura beneficiato. Ma non per molto ancora, affermano i ricercatori della Società Meteorologica Italiana Guglielmo Ricciardi e Alessandra Buffa: “dal 2030 la riduzione dei raccolti vedrà un aumento esponenziale dei danni rispetto ai benefici”.
Il settore agricolo è tra i più impattanti in termini di gas serra: con il 21% di emissioni è secondo solo alle attività legate all’energia (37%). La fermentazione enterica degli allevamenti industriali copre il 70% di questo dato. “Non ci dobbiamo però concentrare solo sulla valutazione delle attività principali, - avvertono i meteorologi - ma valutare le attività di preproduzione (mangimi e concimi) e di postproduzione (trasporto, stoccaggio, packaging). Le emissioni di Co2, poi, non sono l’unico parametro da considerare: vanno tenuti in conto anche il contesto geografico di produzione, la qualità dei suoli e il loro livello di tossicità e l’uso in quanto risorsa scarsa, l’utilizzo di acqua e di biosfera (water footprint e ecological footprint)”. Sebbene anche la Fao sottolinei la necessità di andare verso un’indagine multiprospettica, che tenga conto degli influssi del cambiamento climatico su sicurezza alimentare, nutrizione e perdita di biodiversità, siamo ancora lontani dall’avere una visione complessiva della filiera.

Focus - “Cheese 2017”: il cibo del futuro? “Naturale”. E non vale solo per i formaggi, ma anche per salumi, birre, vini e per tutti i prodotti alimentari di maggior consumo. Ma cosa vuol dire esattamente?
Il cibo del futuro deve essere “naturale”. È questa secondo Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità e responsabile scientifico “Cheese”, la sfida che l’edizione 2017 dell’evento internazionale dedicata ai formaggi di qualità lancia a tutti i produttori che lavorano per la qualità. E questo non vale solo per i formaggi, ma anche per salumi, birre, vini e per tutti i prodotti alimentari di maggior consumo. Ma cosa vuol dire esattamente “naturale”? Partiamo dal formaggio, protagonista di “Cheese”, per definizione, da 20 anni. Ovviamente deve essere a latte crudo, ma questo non basta. La biodiversità di un formaggio sta in gran parte nella sua carica batterica, come ha spiegato Giampaolo Gaiarin, tecnologo caseario della Fondazione Edmund Mach, ovvero nelle migliaia di microrganismi che, presenti naturalmente nel latte appena munto e non pastorizzato, conferiscono al formaggio gusti e aromi tipici di un territorio. Purtroppo i fermenti naturali oggi sono in larga parte rimpiazzati da batteri selezionati in laboratorio e riprodotti industrialmente. Anche da chi usa il latte crudo: “questo succede perché i fermenti industriali danno maggiori certezze in termini di replicabilità e buona riuscita del formaggio”. Infatti, la “bustina” già pronta riduce il rischio di sviluppare batteri “cattivi” e di conseguenza limita gli scarti. Insomma, “è un modo per semplificarsi la vita, a scapito però del gusto e mortificando il ruolo del latte crudo”. Ma non per tutti è così. Piero Sardo ha raccolto più di 50 storie di eroi dell’autenticità nel suo libro “I formaggi naturali”, appena pubblicato da Slow Food Editore: “siamo arrivati a un momento storico in cui bisogna scegliere da che parte stare - spiega l’autore - tenendo presente che chi prende la strada del naturale non deve per forza rinunciare alla quantità: ad esempio i caselli del Parmigiano Reggiano riuniti nel Consorzio producono complessivamente 3 milioni e mezzo di forme l’anno, un formaggio fatto a latte crudo e con fermentazione naturale”. Artigiani dai grandi numeri quindi: “oggi conosciamo il nome del formaggio ma non chi lo fa: il produttore rimane spesso sconosciuto a differenza di quanto accade in un altro settore, come quello del vino, dove la scelta viene fatta in base al produttore. Il vino ci ha impiegato 50 anni per farsi un nome, mentre il cammino del formaggio è appena iniziato”, conclude Sardo.
Ma il discorso del naturale non vale solo per il formaggio. Lo sanno bene quei produttori di salumi che hanno scelto di non utilizzare nitriti e nitrati nella loro carne e per questo si ritrovano a lottare da una parte con rigidi regolamenti igienico-sanitari, dall’altra con la diffidenza del consumatore per il quale un prosciutto cotto grigio (che sarebbe il suo colore naturale) diventa meno appetibile rispetto a uno dal colore rosa, ottenuto grazie all’utilizzo di additivi. E questo vale anche per l’estero. Ovviamente quella del cambio di colore è solo la parte più superficiale della faccenda: l’utilizzo di nitriti e nitrati è giustificato dalla necessità di conservare i salumi, ma basta guardare alla storia della norcineria italiana per capire come, utilizzando solo ingredienti naturali, si possano consumare salumi liberi da additivi in tutta sicurezza.

Focus - La Denominazione d’origine protetta (Dop) è in crisi? E il futuro delle Dop è nelle mani dei giganti? Gli interrogativi posti da “Cheese 2017”, a partire dai formaggi francesi
La Denominazione d’origine protetta (Dop) è in crisi? E il futuro delle Dop è nelle mani dei giganti? È l’interrogativo posto da “Cheese 2017”, a partire dal libro-inchiesta di Véronique Richez-Lerouge, giornalista e presidente dell’Association Fromages de Terroirs, che rivela come i due terzi dei formaggi francesi protetti dalla Aop siano nelle mani delle grandi industrie, che poco hanno a che fare con il terroir e spesso spingono i piccoli caseifici a chiudere i battenti. Molte aziende francesi sono state acquisite da grandi multinazionali tra cui Lactalis, Sodiaal, Eurial e altre, che ora stanno producendo le storiche Aop. “Prendiamo ad esempio il Camembert - ha detto l’autrice - oggi il 50% della sua produzione è in mano a una sola grande azienda. In questo modo i formaggi a latte crudo cadono vittime della stessa standardizzazione che vogliono evitare”.
Richez-Lerouge pone anche l’attenzione sul progressivo svuotamento di valore delle Dop, come testimoniato anche da Joe Schneider, del Presìdio dello Stichelton. Questo formaggio inglese nasce proprio in seguito a una disputa con il marchio di tutela europeo: nel Regno Unito esiste una Dop per lo Stilton, un formaggio vaccino storico che dal 1989 non usa più il latte crudo. “Paradossalmente, se nello Stilton ci mettiamo un ananas, per la Dop quello rimarrà sempre Stilton. Ma se usiamo latte crudo no. Noi abbiamo avviato un progetto per riportare in auge un prodotto come vuole la tradizione, quella vera. La Dop dovrebbe riconoscerci questo sforzo, e invece la Commissione Europea non ci ascolta. Così abbiamo cambiato nome al nostro formaggio che da Stilton è diventato Stichelton”.
Chiamata in causa, la Commissione Ue ha risposto con Branka Tome, vicecapo unità delle Indicazioni geografiche: “il nostro compito è quello di far rispettare le Dop esistenti. Non è impossibile modificare un disciplinare, purché sia l’intero territorio coinvolto a volerlo. Proprio perché le Dop tutelano il territorio, è necessario che siano considerate le posizioni di tutti gli attori locali». Secondo i dati della Dg Agricoltura, in Europa i prodotti tutelati - 3.400 in tutto, tra Dop, Igp e Stg - rappresentano una fetta di mercato che vale 75 miliardi di euro. Le Dop creano occupazione e valore economico dando la possibilità a tutti i produttori, grandi e piccoli, di inserirsi nelle diverse economie di scala”.
Lo sa bene il Parmigiano Reggiano, di sicuro il formaggio italiano a latte crudo più famoso a livello mondiale. “Da 800 anni il Parmigiano si fa in un terroir ben specifico, una porzione di territorio limitata perché lì, e solo lì, c’è una composizione del terreno particolare, che conferisce al Parmigiano il suo caratteristico gusto e aroma - ha ricordato Nicola Bertinelli, presidente del Consorzio - il Parmigiano ha fatto da volano economico per il nostro territorio. Le sfide che ci riguardano sono altre e vanno dal sostegno del prezzo delle materie prime al contrasto delle imitazioni. Le certificazioni devono basarsi sull’autenticità. Ad esempio il nostro disciplinare prevede che il foraggio somministrato ai bovini provenga per il 75% dal territorio di produzione locale. Perché non il 100%? Perché non sarebbe possibile, soprattutto in questo periodo di forte siccità”. E sull’ingerenza delle multinazionali, Bertinelli non è preoccupato: “perché queste diventino davvero padrone delle Dop, dovrebbero appropriarsi anche dell’intero terroir”.

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