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Tra crisi economica ed una comunicazione “caotica” che genera incertezze e paure: gli italiani riducono per la prima volta dal dopoguerra consumi (e qualità) del cibo. Con un “food social gap” in una tavola divisa per “classi”. A dirlo il Censis

Un po’ per gli effetti della crisi economica che ha colpito soprattutto i meno abbienti, come operai e disoccupati, un po’ per quelli di nuovi stili alimentari, spesso dettati anche da modi e da una comunicazione-informazione “caotica, non professionale e spesso con interessi di parte, che demonizza senza motivo certi alimenti e ne santifica, altrettanto immotivatamente, altri”, fatto sta che gli italiani, per la prima volta dal dopoguerra, hanno ridotto i loro consumi alimentari in quantità (-12% di spesa) tra il 2007 e d il 2015, ma anche, o soprattutto, in qualità, tagliando soprattutto su alimenti e proteine nobili come carne e pesce, ma anche su frutta, pasta e verdura.

Mettendo a rischio il modello tipicamente e storicamente italiano della dieta mediterranea, che invece nel mondo cresce e ci viene invidiata e richiesta (come dimostrano i ripetuti record delle esportazioni del made in Italy), ma anche la salute delle persone, e proprio tra le fasce di reddito più basse. Con il ritorno preoccupante di un “food social gap” che torna a dividere le tavole del Belpaese per censo e per reddito (nelle famiglie “operaie” la diminuzione della spesa è del 19,4%, in quelle con a capo un disoccupato del 28,9%) ma anche per cultura del cibo. Ecco, in estrema sintesi, il senso della ricerca “Gli italiani a tavola: cosa sta cambiando. Il valore sociale dell’alimento carne e le nuove disuguaglianze”, presentata oggi a Roma dal Censis. (www.censis.it)


Una situazione che in qualche modo “certifica” anche la crisi del ceto medio, “di cui l’uguaglianza a tavola era uno dei simboli potenti, e che è alla base delle democrazie occidentali”, sottolinea il divulgatore scientifico Alessandro Cecchi Paone. E che è una cartina di tornasole per leggere come è cambiata anche la società italiana, ha spiegato il direttore del Censis Massimiliano Valerii. “Dagli anni 60-70, che è stato il ciclo economico in cui è passata la paura della scarsità e in cui piano piano contadini, operai e borghesi sono arrivati a poter mettere in tavola più o meno gli stessi alimenti, il ciclo in cui tra le rivendicazioni sindacali c’era anche la fettina di manzo nelle mense aziendali, si è passati agli anni 80-90, che sono stati il ciclo del benessere economico, in cui la dieta mediterranea e i pilastri del made in Italy in tavola sono diventati i nostri migliori ambasciatori nel mondo”. Quattro decenni in cui, spiega Valerii, si è arrivati ad una alimentazione più sana ed equilibrata, “con la scomparsa di malattie come la pellagra e lo scorbuto, la crescita della longevità, grazie ad un modello alimentare che si è basato sull’equilibrio tra proteine nobili come quelle della carne, carboidrati come la pasta, verdure e così via”. Poi sono arrivati gli anni 2000, e con essi “la complessità, l’individualismo, il politeismo alimentare, e l’alimentazione è cambiata per motivi economici ma anche di stile di vita. Il cibo ha acquisito una nuova centralità ma legata ad altre tematiche rispetto al passato, dalla sostenibilità delle produzioni alla tipicità degli alimenti dalla tracciabilità dei prodotti, valori nuovi che hanno fatto il loro ingresso sulla scena”.

È anche l’epoca, spiega Valerii, “della disintermediazione digitale: ognuno sul web ha il suo palinsesto, le sue fonti, ma iniziano anche a circolare falsi miti sull’alimentazione che diventano “verità”, e complicano le cose. Tutto questo abbinato ad un mutamento della società e all’apertura a cibi e stili alimentari non tradizionali dell’Italia”. La carne di questo è l’alimento simbolo: -16% tra il 2007 ed il 2015, e solo nell’ultimo anno ne ha ridotto il consumo il 45,8% delle famiglie a basso reddito contro il 32% di quelle benestanti. Di carne bovina, il 52% delle prime e il 37,3% delle seconde. “Questo vuol dire che dietro a quello che abbiamo considerato per anni un conflitto quasi ideologico tra onnivori e vegetariani o vegani”, in realtà nascondeva o raccontava anche una nuova differenziazione per ceti sociali che si riflette sulla tavola”. Ma non è solo una questione economica, ovviamente. Molto è dovuto anche ad una comunicazione caotica, scorretta e sbagliata.

“L’affermazione “la carne fa male” è parte dello “sciocchezzaio” immenso di disinformazione che la rete ci porta e poi la te alimenta - spiega Marino Niola, tra i massimi esperti di antropologia dell’alimentazione e docente all’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli - e se in questo quadro l’elemento economico è fondamentale, non sono meno importanti le variabili culturali.I miti che circolano fanno opinione, colonizzano e modellano l’immaginario dei consumatori, la rete è la vera e unica agenzia educativa, formativa ed informativa, ha sostituito scuola, famiglia e media. La tv poi la mattina ci insegna a cucinare, e tutti fanno programmi sul food dove si spadella, mentre la sera invece ci dice, spesso con nutrizionisti improvvisati, che la carne rossa fa venire il cancro, che poi gli imballaggi dannosi e così via. E questo anche perchè oggi c’è una ossessione sul cibo. La politica è svanita, la religione qui conta sempre di meno, e il cibo sostituisce tutto questo, diventa la divinità di una “religione del corpo”, che spesso è sbagliata, guidata da ideologie, pseudo-dottrine che arrivano da ciarlatani. C’è una sindrome da complotto, temiano che l’industria ci voglia avvelenare, che la scienza ufficiale sia prezzolata, e così arriva il primo ciarlatano che dice come salvarci e ci si crede. Dall’epoca dell’”homo economicus”, che è positivo e ha fiducia nel futuro, siamo passati a quella dell’“homo dieteticus”, spaventato da tutto che vede il suo corpo come unico bene da preservare. Ma va sottolineato che negli anni del consumo minore di carne sono aumentate certe malattie. Io dico che dobbiamo fare attenzione non perdere quel grande patrimonio alimentare, ma anche sociale, che è la dieta mediterranea. Che è anche il regime alimentare più sostenibile del pianeta”.

“Parlano tutti, forse in troppi, di alimentazione, spesso senza averne titolo, e questo crea grande confusione, incertezza e disinformazione - ha aggiunto il celebre nutrizionista Giorgio Calabrese, consulente dei Ministeri della Salute e dell’Agricoltura - e così succede che mentre noi ci ingegniamo per nutrire con cibi tipici e naturali gli astronauti che vanno nello spazio, chi resta qui sulla terra pensa di sostituire certi alimenti, perché secondo qualcuno fanno male, con pillole ed integratori di sintesi, che ovviamente non hanno lo stesso valore nutritivo e salutare. Senza considerare certi fenomeni di sostituzione che fanno riflettere. Un anno fa, quando l’Oms lancio il suo allarme sulla carne come cancerogeno, ricordo che eravamo ad Expo Milano. Bene, in pochi giorni le quotazioni della soia, che oggi si usa per una quantità enorme di prodotti, salirono del 17%”.

Che fare allora? Secondo il professor Calabrese, oltre ad un informazione più seria e scientifica, servono alternative a chi, effettivamente, ha difficoltà di accesso a certi alimenti per questioni economiche. Come la filiera corta, per esempio. Un “assist” al presidente della Coldiretti Roberto Moncalvo, che sottolinea: “nei nostri 1.300 mercati degli agricoltori in tutta Italia ci sono molte chiavi di lettura del futuro, da centri città a periferie a piccoli centri. Vengono persone povere e ricche, dirigenti ed operai, benestanti e pensionati. Vuol dire che c’è un elemento di scelta, prima che economico. Nel mercato dell’ortofrutta cittadini ci scelgono per rispondere a distorsioni che ci sono in gdo, perchè se guardo al prezzo dell’ortofrutta vedo un prezzo che al dettaglio è sempre salito, ad ogni emergenza di caldo o di gelo, mentre il prezzo riconosciuto agli agricoltori non sale mai. Comprare a filiera corta, inoltre, vuol dire acquistare prodotto fresco e ridurre anche gli sprechi. Qui i cittadini trovano anche la possibilità di toccare con mano elementi come qualità e sicurezza alimentare, oltre che di sostenibilità. E il “km 0” vuol dire rispondere a criteri di trasparenza e tracciabilità, che sono sempre più richiesto. Nel calo dei consumi generalizzati di pasta, per esempio, emerge che cresce quella a filiera 100% italiana. In Italia c’è una agricoltura forte che è fatta di varietà, non di monocultura intensiva. Noi abbiamo le chiavi per costruire un racconto vero dei nostri sistemi di agricoltura e produzione di cibo, a partire dagli allevamenti. Per dare risposta alle bufale, per esempio, bisogna avere il coraggio di dire che la carne non è tutta uguale, come non lo sono i salumi, giocare sulla diversità è un elemento importante per rispondere a preoccupazioni e richieste consumatori”.

Insomma, un quadro complesso. E la “ricerca Censis fotografa un pericoloso fenomeno nel cambiamento del rapporto degli italiani con il cibo - ha aggiunto il presidente di Federalimentare Luigi Scordamaglia - al punto che si genera un paradosso: come industria del cibo siamo fieri di quanto fatto, nel 2015 c’è stato il record del nostro export, e anche nel 2016, seppur più lentamente si cresce, 3 volte più di ogni altro settore italiano, ma in Italia invece dobbiamo giocare in difesa. Anche perché chi fa dibattiti spesso non è professionale, si ergono soubrette a modello di riferimento alimentare, ci sono queste diete manichee con alimenti salvifici e malefici. È uno schema di comunicazione che non fa bene a nessuno. Le persone che hanno paura del cibo a livello patologico sono tre volte di più di chi è effettivamente allergico al glutine, tanto per dirne una. Speriamo che cresca il potere di acquisto, ovviamente, ma la nostra responsabilità sta anche nella comunicazione, nell’evitare che il cibo diventi argomento di scontro ideologico, come succede sempre in ogni trasmissione in tv. Una cosa preoccupante è la sostituzione di prodotti naturali come le proteine nobili della carne, o lo zucchero, con elementi di sintesi artificiale, e non fa bene a nessuno. Come sostituire la carne con la soia, che per assomigliare alla carne è sottoposta a forzature e processi che di certo non sono positivi”.

“Questo rapporto fotografa una situazione che in molti avevano colto negli ultimi tempi, anche in modo plastico, tra supermercati e negozi - ha aggiunto il Ministro delle Politiche Agricole Maurizio Martina - anche nel cambio del rapporto tra spesa, cittadino consumatore, e il rapporto ci racconta alcune scollature sui cui lavorare. Si mette in discussione la dieta mediterranea, anche nella sua forza sociale comunicativa ed educativa, che ci dice che quello che ritenevamo scontato in realtà non lo è, e che tutto può cambiare. E questo vale ancora di più se pensiamo alle giovani generazioni. È un tema delicatissimo, quello dell’alimentazione, per gli effetti che produce in termine di obesità e rischi, e da alcune grandi città del Sud, per esempio, arrivano dati allarmanti. Va rimesso a fuoco un percorso di valorizzazione della dieta mediterranea e dell’equilibro che esprime. La questione non è solo riproporre al dieta mediterranea come in passato, ma trovando altre vie basandoci sui valori fondamentali che esprime, e che sono studiati, desiderati, ammirati e copiati nel mondo. Va ricostruito un nuovo equilibrio informativo, che è anche educativo. E l’aspetto educativo-formativo in spazi pubblici e scuole è uno dei grandi temi che dobbiamo affrontare. Ma serve un impegno collettivo di tutti, insieme, dobbiamo lavorare tutti nella stessa direzione”.

Focus - I dati principali della ricerca Censis

Nell’ultimo anno, secondo l’indagine del Censis, 16,6 milioni di italiani hanno ridotto il consumo di carne, 10,6 milioni quello di pesce, 3,6 milioni la frutta, 3,5 milioni la verdura. Il minore consumo degli alimenti di base della buona dieta italiana, spesso sostituiti con prodotti artefatti e iper elaborati a basso contenuto di nutrienti, genera una minaccia per l’equilibrio nutrizionale delle diete quotidiane delle famiglie italiane e nuovi rischi per la salute. Sono le famiglie meno abbienti a ridurre di più gli alimenti di base della buona dieta italiana. Nell’ultimo anno hanno ridotto il consumo di carne il 45,8% delle famiglie a basso reddito contro il 32% di quelle benestanti. Per il pesce, il 35,8% delle meno abbienti e il 12,6% delle più ricche. Per la verdura, riducono il consumo il 15,9% delle famiglie a basso reddito e il 4,4% delle benestanti. Per la frutta, il 16,3% delle meno abbienti e solo il 2,6% delle più ricche. Se nell’Italia del ceto medio vinceva la dieta equilibrata dal punto di vista nutrizionale disponibile per tutti, nell’Italia delle disuguaglianze il buon cibo lo acquista solo chi può permetterselo. È il Food social gap, la nuova disuguaglianza a tavola, che diversifica la possibilità di accedere ai prodotti buoni, genuini e salutari della dieta italiana. Le quote di famiglie meno abbienti che hanno ridotto i consumi di carne, pesce, frutta e verdura sono sistematicamente superiori alle quote di famiglie benestanti che hanno ridotto il consumo di tali cibi. Paradigmatico del Food social gap è proprio il consumo di carne. Nel periodo 2007-2015 hanno ridotto la spesa per acquistare la carne soprattutto le famiglie operaie (-20% in termini reali) e quelle con a capo un disoccupato (-26,7%), molto più che le famiglie con a capo un imprenditore (-15,5%). Per l’acquisto di carne bovina, in particolare, la spesa delle famiglie operaie si è ridotta nel periodo del 38,5%, quella delle famiglie dei disoccupati del 46,1%, quella delle famiglie degli imprenditori del 34,3%. “Meno puoi mangiare carne, più ne dovrai ridurre il consumo”: è questa la logica socialmente regressiva che riporta le lancette della nostra società indietro alla “tavola per ceti”, quando l’accesso alla carne era il segno di un raggiunto status di benessere.

Così, la riduzione del consumo di alimenti fondamentali della dieta italiana genera un rischio per la salute, perché l’effetto di prevenzione della nostra dieta rispetto a una molteplicità di patologie tenderà a ridursi, con alti costi sociali sulla salute e sul servizio sanitario. Se carne, pesce, frutta e verdura svaniscono dalle tavole degli italiani, aumenta il rischio di patologie. I tassi di obesità sono più alti nelle regioni con redditi inferiori e spesa alimentare in picchiata. Infatti, nel Sud, con un reddito inferiore del 24,2% rispetto al valore medio nazionale e una spesa alimentare in caduta del 16,6% nel periodo 2007-2015, gli obesi sommati alle persone in sovrappeso arrivano al 49,3% delle popolazione, mentre al Nord (42,1%) e al Centro (45%), dove i redditi sono mediamente più alti e la spesa alimentare ha registrato una minore decrescita, le quote corrispondenti sono inferiori.

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