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“Buono, pulito e giusto” nel nuovo mondo: l’incontro fra il motto (e auspicio) di Slow Food e il melting pot sociale, economico, gastronomico e culturale degli Stati Uniti d’America, secondo Richard McCarthym, Executive Director Slow Food Usa

A prima vista, mettere l’uno accanto all’altro gli ideali e il modus operandi di Slow Food - l’associazione creata da Carlo Petrini che proprio quest’anno ha compiuto trent’anni di età - e gli Stati Uniti d’America sembra quasi un controsenso: per come la conosciamo, nel bene e nel male, l’Unione si basa, respira e vive ogni giorno secondo valori quasi antitetici rispetto a quelli di un’organizzazione decisamente del vecchio mondo come quella della “Chiocciola”. Ma nonostante questo, e forse proprio per questo, la “filiale” statunitense di Slow Food sta dimostrando una vitalità e un successo invidiabili, a partire dai suoi 10.000 iscritti in 150 sezioni e da un seguito sui social davvero notevole - e questo proprio perché opera, in un certo senso, nella tana del leone di quella società che ha plasmato il ventesimo secolo a propria immagine e somiglianza, con ritmi e filosofie di consumo che appaiono ormai evidentemente non sostenibili, come ha spiegato, a WineNews, Richard McCarthy, Executive Director di Slow Food Usa.
“Gestire Slow Food negli Stati Uniti - ci ha detto - è come gestire il futuro, circondato dal passato. Con questo voglio dire che operiamo nel ventre della bestia, per così dire, e la “bestia” è la cultura del fast food - ed è un ventre molto molto grande, che sta cominciando a rumoreggiare, perché ci sta venendo a noia, ci sta stancando questa “gara” verso la velocità e la larga scala, questa corsa verso l’omogeneizzazione. La gente ha una voglia irrefrenabile di sapori e luoghi unici e inimitabili, e sono soli, e sentono il bisogno di creare connessioni, e il cibo è questo connettore; come “nuovo mondo” abbiamo poche tradizioni culinarie secolari, a parte quelle di quelle popolazioni che abbiamo scacciato dalla loro terra, quelle indigene, e abbiamo appena cominciato a scoprire non solo il cibo indigeno, ma attraverso il cibo, stiamo cominciando a conoscere i popoli stessi”. La giovinezza, storica quanto filosofica, degli Stati Uniti ha però anche riflessi positivi, ha sottolineato McCarthy: “gli States sono anche un posto di creatività straordinaria in tema di cibo, e sul “gettare un ponte” che viene compiuto tra molte cucine e culture di immigrati. Perché è in America che si vedono cose folli come un taco coreano? Il cibo coreano incontra quello messicano perché entrambi sono immigrati recenti verso un paese che ti dice che puoi fare tutto ciò che vuoi: e le persone lo fanno, ma stanno anche cominciando a scoprire quali sono le loro radici culturali, che non devono abbandonarle quando arrivano negli States, ma che possono invece celebrarle, e quando lo fanno, le intrecciano e le condividono con le altre. Quindi siamo in un periodo storico e in un terreno incredibilmente fertili”.
Secondo McCarthy, il successo della creatura di Carlin Petrini nel paese che ha esportato tanti di quei fenomeni che Slow Food combatte con la sua filosofia non è poi così paradossale, anzi: “ci sentiamo molto responsabili per quello che abbiamo esportato dovunque nel mondo, e viviamo dove la rivoluzione del fast food si è evoluta a tal punto che oggi sembra che stia esaurendo il carburante. E la gente comincia a chiedersi, è questo quello che voglio? Voglio mangiare da solo nella mia automobile, o voglio sedermi a tavola e farmi nuovi amici? Ora come ora le preoccupazioni per la salute pubblica, specificamente in tema di obesità, di obesità infantile e di malattie croniche, stanno maturando, e anche l’esperto di salute pubblica più di vedute ristrette che esista, in termini della sua preparazione, sta finalmente rendendosi conto che il cibo non è solo carburante: è cultura, è un’opportunità di discussione, è uno stimolo per il cambiamento dei comportamenti. Anche nel nostro discorso politico stiamo accorgendoci del fatto che la nostra economia agricola sta derubando ricchezza alle comunità del mondo, ed è un cambiamento di pensiero straordinario avvenuto negli ultimi 50 anni, e le comunità urbane stanno diventando vivaci, e ricche del tipo di caos che un tempo era visto come pericoloso: negozi ambulanti di cibo, orti scolastici, mercati di quartiere, accanto a questo mondo del ventesimo secolo che sta iniziando a essere percepito come grigio e irrilevante. Penso che abbiamo la responsabilità di essere quantomeno presenti al tavolo”, ha puntualizzato McCarthy, “e di riconoscere il nostro ruolo nell’esportare questo modello terribile: la gente ha fame di una realtà diversa, e la stanno costruendo giorno dopo giorno, in America è come una rivoluzione applicata alla vita quotidiana”.
Una rivoluzione che, a differenza di quella che ha dato vita agli States nel diciottesimo secolo, è stata stimolata e promossa dal livello più alto del Governo americano, grazie all’opera della First Lady, Michelle Obama. “Siamo molto grati - ha puntualizzato McCarthy - alla saggezza di Michelle Obama nel creare un orto biologico alla Casa Bianca, il primo dai tempi del Victory Garden di Eleanor Roosevelt. Quell’atto, la campagna “Let’s Move” e il mercato alimentare della Casa Bianca, sono stati tutti segnali importantissimi venuti dal livello più alto del Governo sul fatto che il cibo è un tema importante, bisogna dargli valore in modo diverso. E non solo dal livello più alto del Governo, ma anche dal più riconoscibile leader afroamericano donna negli States, che dice “questa è una faccenda importante”. Quindi sia la voce, che il messaggio, hanno cambiato il nostro discorso pubblico in tema di cibo per sempre”. Ma d’altro canto, è solo questione di giorni prima che l’inquilino del 1600 di Pennsylvania Avenue cambi, dato che le elezioni presidenziali di novembre sono dietro l’angolo.
Secondo McCarthy, “queste elezioni dimostrano più di una cosa. La prima sono i rischi: sceglieremo di mantenere un modello neoliberale relativamente statico, con Hillary Clinton, che ha alcuni segnali incoraggianti di pluralismo e tolleranza e investimento, o ci barricheremo come conseguenza delle nostre paure? Non lo sappiamo. Spero che non usciremo dalle elezioni con un muro intorno al nostro paese, ma il fatto è che siamo sul bordo di un pericolosissimo precipizio in termini di cosa consideriamo essere un consenso nazionale, e questo ci dimostra che non ce n’è uno. L’era neoliberale che è andata da Ronald Reagan fino a Obama”, ha ammonito l’Executive Director di Slow Food Usa, “è sostanzialmente finita: non possiamo spremere ulteriormente la gente, non possiamo più privatizzare niente perché non c’è più niente da privatizzare, non c’è più crescita, e ci rendiamo conto che una economia spinta solo dalla crescita non aiuta necessariamente a sviluppare l’economia della gente, manca un consenso su in che tipo di comunità nazionale, e in che tipo di comunità locale, si vuole decidere di vivere. Credo che si tratti di un indicatore straordinario del punto dove ci troviamo come paese: decideremo di correre incontro alla paura, o sceglieremo la tolleranza? Ma credo che l’elezione non risponderà a questa domanda, credo sia solo l’inizio della costruzione della natura della prossima era, perché quest’elezione non risponde a domande legate al cibo”.
I temi sul tavolo, in un clima di incertezza che sembra aver letteralmente paralizzato quella che, volenti o nolenti, è la più grande potenza economica globale, sono ben altri dal cibo, e McCarthy lo sa bene: “i nostri temi non ce l’hanno ancora fatta a divenire temi ad alta priorità, e come è possibile questo, quando il cibo è alla base di ciò che consente a una società di fiorire e crescere o avvizzire e morire - in altri termini, se c’è un accesso a buon mercato e sicuro a buon cibo o meno? Se ci manca quello, cominceremo inevitabilmente a provare sulla nostra pelle incertezza, e violenza, e caos a un livello estremo, e basta leggere libri di science fiction per capire che vuol dire. Stiamo forse entrando in una fase nella quale forse avremo finalmente un dibattito pubblico su che tipo di comunità vogliamo avere, su quali saranno i confini intorno a queste comunità, se vorremo colmare le differenze o nasconderci in piccole enclave? L’opportunità che abbiamo è o quella di iniettare più saggezza e inventiva nelle nostre politiche alimentari, o quella di rendere il cibo rilevante in altri contesti? Perché alla fin fine, si può muoversi verso il cibo o il cibo può muoversi verso gli altri, e penso che questa sia un’opportunità per inserire il tema del cibo in discussioni sul viaggiare, sull’immigrazione, sull’energia e sulla terra”.

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