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L’orto come luogo di educazione, come simbolo di “rivoluzione” (anche culturale) e come strumento di creazione di una identità culturale: i racconti dagli Usa (Alice Waters e Ronnie Finley) all’Africa (Edie Mukiibi) e non solo, a Terra Madre

Non Solo Vino
A Terra Madre, Alice Waters e Edie Mukiibi

L’orto come luogo di educazione non solo al cibo sano all’agricoltura, ma anche “civica”, come simbolo di ribellione ad un sistema che fa del cibo “standardizzato” il suo pilastro, ma anche come strumento di sussistenza alimentare ed economica in certe aree del mondo: dagli Usa all’Africa, ecco il senso che le esperienze didattiche e agricole legate ai piccoli orti possono avere. Ne hanno parlato, a Terra Madre a Torino, la vicepresidente internazionale di Slow Food e ideatrice degli “Edible Schoolyard” in America, Alice Waters, il “guerrilla gardener” di Los Angeles Ronnie Finley, e Edie Mukiibi, anche lui vicepresidente di Slow Food e responsabile del progetto dei “10.000 orti in Africa” di Slow Food.

“Il progetto Edible Schoolyard ha 21 anni di età ed è iniziato in modo imprevisto e imprevedibile, dopo un articolo in cui evidenziavo come il cortile di una scuola media di Berkeley fosse completamente abbandonato. Abbiamo iniziato nel modo più semplice possibile - racconta la Waters - cercando di attrarre la gente con un messaggio positivo. Oggi, nell’orto i bambini imparano tutto: a coltivare, a cucinare, ma anche il teatro, l’arte, la storia, la matematica... Se i bambini producono verdura, hanno voglia di mangiarla. Cinque anni fa abbiamo lanciato un sito web che raccoglie le buone pratiche in tutto il mondo: tante persone vi hanno inserito informazioni, dando il proprio contributo. Solo nell’ultimo anno negli Stati Uniti sono nati 1.500 nuovi progetti di orti. Credo sia il momento giusto per cose di questo tipo”. E fondamentale, spiega la Waters a WineNews, è partire dai bambini e dalle scuole pubbliche (https://goo.gl/ezfquA).

Esperienza diversa, quella di Ronnie Finley, guerrilla gardener, di Los Angeles: “la vita viene dalla terra, così come la cultura, la agri-cultura. Il nostro bisogno è di recuperare questo rispetto, e dobbiamo rendere il giardinaggio, il coltivare una delle attività più sexy che si possano svolgere. A parte gli scherzi, io ho iniziato a coltivare perché cercavo del cibo sano, ma dove vivevo non mi era possibile trovarlo. Volevo un cibo iper-locale, a mia disposizione. Così ho iniziato a piantare un orto di fronte a casa, ma l’inizio è stato molto travagliato: denunce, mandati di arresto, lamentele dei vicini... E anche una certa notorietà. Alla fine ci sono riuscito: ho creato un piccolo ecosistema davanti a casa e questa azione ha avuto un’enorme risonanza. La notizia ha fatto il giro del mondo. Un orto va oltre le religioni, le razze, risveglia le persone (non solo i vicini), insegna a pensare, a progettare la vita che vuoi vivere, che è ben diversa da quella che i fast food e le multinazionali hanno programmato per te. Le piante per noi possono fare molte cose: producono addirittura rumori, anche se spesso non ce ne accorgiamo neppure. Calmano le persone. Ne abbiamo bisogno”.
Ma gli orti non sono solo in America. Edie Mukiibi, vicepresidente di Slow Food, porta la testimonianza del progetto dei 10.000 orti in Africa. “Con gli orti in Africa vogliamo sostenere il nostro popolo, la nostra madre: la terra. Non si tratta di insegnare alla gente a coltivare - molti sanno già farlo - ma di incoraggiarla a tener fede alle proprie pratiche. Siamo partiti da pochi orti, oggi ce ne sono oltre 3.000 in 34 Paesi, che dimostrano la forza e la capacità delle comunità africane. Spesso in Africa abbiamo un problema di leadership, soprattutto quando si parla di cibo, ma da questo progetto nuovi leader stanno emergendo. Ogni giorno nuove scuole e comunità vogliono entrare nella rete perché comprendono che avere un orto dà una possibilità di trasformazione sociale, sia dei ragazzi sia degli insegnanti, stiamo avendo un impatto forte e coinvolgente. Quando nasce un orto di questo genere la vita cambia. La mia è cambiata, la vedo in modo diverso. Attraverso un orto si crea uno spirito di famiglia, si capiscono molte cose vere della vita”.

Un progetto, quello degli orti in Africa, sostenuto anche da una grande azienda come Lavazza, storica griffe torinese del caffè.

“Lo facciamo innanzitutto perchè per noi l’Africa è un continente importante - spiega a WineNews.tv Giuseppe Lavazza - da cui compriamo del caffè eccellente, e come tale rappresenta un patrimonio da rispettare e da conservare. Il grosso problema dell’Africa è stabilizzare le comunità che ci vivono, affinché le persone continuino ad occuparsi permanentemente di agricoltura, e non facciano, come accade, che abbandonino i loro territori per cercare fortuna altrove. Ma lavorare per realizzare degli orti - aggiunge - vuol dire dare opportunità di reddito suppletive a chi si occupa di agricoltura, dare maggiore sicurezza alimentare e di sostentamento ai nuclei familiari, introdurre anche gradualmente delle pratiche agricole più evolute che poi sono importanti, anche per la produzione del caffè. Vuol dire, insomma, attivare un processo virtuoso di cui anche un azienda come Lavazza può beneficiare al 100%”.

Quelle della Waters, di Finley e di Mukiibi, in ogni caso, sono tre esperienze diverse che ruotano intorno all’orto, e che dicono tante cose, come spiega Valerio Borgianelli della Commissione Educazione di Slow Food.

“L’esperienza degli “Edible Schoolyards” di Alice Waters ha 21 anni, di vita, è la più storicizzata di tutte, anche degli Orti in Condotta di Slow Food, e ci dice che se si parte da bambini, e soprattutto se si fa loro anche cucinare e mangiare quello che coltivano, funziona, perchè i primi bambini che hanno iniziato il progetto oggi sono adulti, e si vede che fanno scelte differenti. Quella di Finley è interessante, ma, come ha raccontato, dice anche un’altra cosa: che è facile convincere la gente a coltivare un orto, ma poi bisogna anche spiegarli come cucinare le verdure, che a noi, in Italia, sembra scontato, ma dalle sue parti non lo è. Quella degli orti in Africa, ovviamente, è un’esperienza che non può risolvere i problemi della fame, ma è importante a livello concreto, e ancor più simbolico: è un numero alto di piccolissimi pezzi di terra che possono “piantare un seme” di consapevolezza nelle piccole comunità, e a far capire loro che un certo tipo di agricoltura sostenibile può essere un alternativa per l’approvvigionamento alimentare”. Che, in certi luoghi del mondo, nemmeno troppo rari, non è comunque una cosa da poco.

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