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In un’epoca in cui mangiare nelle corti italiane andava oltre la nutrizione con spettacolari messe in scena di banchetti, gli chef “stellati” si chiamavano Messibugo, Rossetti e Scappi: lo racconta Pierluigi Ridolfi nel volume “Rinascimento a Tavola”

In un’epoca in cui mangiare, almeno tra le classi più ricche delle corti italiane, andava oltre la nutrizione, con spettacolari messe in scena di banchetti, nonostante strumenti da lavoro e ingredienti sul tavolo erano assai meno numerosi di oggi, gli chef “stellati” si chiamavano Cristoforo Messibugo, Giovan Battista Rossetti e Bartolomeo Scappi: lo racconta Pierluigi Ridolfi, ingegnere e professore all’Università di Bologna (in passato tra i protagonisti dell’informatica italianam in Ibm Italia) presidente dell’Associazione Amici dell’Accademia dei Lincei, nel volume “Rinascimento a Tavola: la cucina e il banchetto nelle corti italiane”. Un viaggio nelle cucine e sale da pranzo delle classi più abbienti del Cinquecento italiano, attraverso i piatti di una piccolissima fetta della società, perché per il resto della popolazione la tavola era magra, anzi magrissima.
Dietro il banchetto rinascimentale, che molte volte “ha portato a un dolce decesso qualcuno dei commensali, si cela un mondo di simboli” ha spiegato il filosofo Tullio Gregory, membro dell’Accademia dei Lincei, nella presentazione del volume (Donzelli Editore, 2015, pp. XVI-258, prezzo di copertina euro 38;
www.donzelli.it) di scena ieri all’Accademia a Roma. “Il convito era un momento estremamente importante - ha aggiunto Gregori - oggi durante i pranzi i commensali sono molto attenti a ciò che accade in tv o sullo schermo dei loro smartphone. Si è perso il concetto di convito come momento di incontro. Abbiamo una cucina disfatta dai fast food e dalle preparazioni veloci. E di conseguenza ci ritroviamo con una cultura disfatta”.
Dall’ antichità fino alla rivoluzione scientifica sono esistite solo due tecniche di cottura: l’arrosto e lo stufato. Che la dicevano lunga sullo strato sociale di appartenenza: “lo stufato apparteneva alla cultura contadina perchè permetteva di appendere le verdure al paiolo e andare a lavorare nei campi. Di conseguenza, i ricchi mangiavano solo carne allo spiedo: semi-lessata prima e poi cotta allo spiedo dalla servitù. Il popolo mangiava sopratutto legumi e i più fortunati, coloro che le allevavano, riuscivano a mettere qualche volta una gallina sotto i denti. E la distinzione era così netta che pare che Carlo Magno una volta avesse cacciato in malo modo un medico che gli aveva consigliato di mangiare più verdure lesse per diversificare la dieta. Non solo: la carne, poichè costosa - ha spiegato ancora Gregory - era un indice di lustro al punto che in alcuni banchetti si portava in tavola il pesce presentato sotto forma di cosciotto di vitello”.
E se il convito cinquecentesco si basava sul godimento della messa in scena, sulla spettacolarizzazione della cena, non potevano mancare, tra una portata e un’altra, i buffoni di corte, le danze e le musiche. “Rappresentava - ha raccontato Ridolfi - una rinascita dal declino medievale durante il quale erano state oscurate le piacevolezze gastronomiche dell’antica Roma. Oggi - continua l’autore - a Ferrara e Mantova è rimasto molto della cultura culinaria di allora: dallo spirito all’accostamento del dolce con il salato, fino all’uso spezie e alle ricette vere e proprie, come dimostrano la salama da sugo e il pasticcio ferrarese di quel tempo e ancora sulle tavole dell’Emilia Romagna. Sono scomparsi invece la carne d’orso, di tartaruga e la tradizione di portare in tavola una torta con un uccello dentro pronto a svolazzare”.

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