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Non solo una moda, ma anche un’ancora di salvezza economica nei Paesi in via di sviluppo, ed una via di occupazione con attenzione al territorio in quelli già sviluppati, è il “Cibo di strada: qualità e potenzialità socio-economiche e ambientali”

Di gran moda grazie alla sua semplicità, ai costi accessibili e ad una sempre maggiore attenzione al gusto, lo street food, che negli ultimi anni sta vivendo una vera e propria esplosione, è anche un’ancora di salvezza economica, uno sbocco occupazione soprattutto nei Paesi in via di sviluppo e tra le classi più deboli, come donne o anziani, ma anche in quelli già sviluppati, dove con la crisi non solo molti giovani, ma anche ex manager, broker di borsa o avvocati che hanno perso il lavoro si sono riciclati come chef da strada, magari con una certa attenzione alla valorizzazione del territorio e alla salubrità dei piatti proposti. Emerge da “Cibo di strada: qualità e potenzialità socio-economiche e ambientali”, nei giorni scorsi nel Padiglione Slow Food ad Expo. A spiegarlo sono stati Stefano Marras (ricercatore associato presso l’Università di Milano Bicocca in Department of Business Administration Finance, Management and Law Department of Sociology and Social Research) e Paolo Corvo (Direttore del Laboratorio di Sociologia presso Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Slow Food). Sul fronte del commercio, l’appeal del cibo di strada, hanno spiegato i realtori, deriva dalla sua semplicità, che offre ad ampie fasce di popolazione una buona opportunità di lavoro. In particolare a classi basse, donne e anziani nei Paesi in via di sviluppo, così come a molti giovani nei Paesi sviluppati in periodi di crisi economica. Nei Paesi in via di sviluppo, i venditori sono soprattutto membri dei gruppi economicamente e socialmente marginali - in particolare donne, anziani, immigrati rurali, minoranze etniche - che offrono cibi tradizionali preparati artigianalmente utilizzando cucine mobili spesso non omologate.
“Ho viaggiato in Argentina, Cile, Bolivia, Perù, intervistando i venditori di street food” ha spiegato Marras “nel breve documentario “Esta es mi comida” che ho realizzato, si notano alcuni elementi che caratterizzano il cibo di strada. Molte sono donne, molti sono indigeni, sono persone di fatto escluse dal mercato del lavoro formale che trovano nel commercio di strada uno sbocco per la sopravvivenza. Queste persone non hanno bisogno di un’educazione formale, per cucinare infatti basta la quarta elementare e bastano pochissimi strumenti per avere uno stipendio dignitoso”.
Nei Paesi sviluppati, invece, è possibile individuare una nuova classe di venditori che sono frutto di un mix di crisi economica, tendenze salutiste, mediatizzazione della cucina e diffusione dei social network, composta da giovani professionisti di classe e istruzione medio-alta che si stanno mettendo alla guida di furgoncini graffitati e dalle forme stravaganti, proponendo piatti gourmet, reclamando l’uso di ingredienti “naturali”, comunicando attraverso i social network e creando eventi pop-up in spazi urbani ex industriali.
“Nei paesi sviluppati come gli Stati Uniti i venditori possono essere anche ex broker” ha detto Marras “o avvocati che si convertono allo street food perché hanno perso il lavoro a causa della crisi”. Inoltre, guardando alle macro-dinamiche della filiera agroalimentare, la flessibilità del commercio ambulante pone il cibo di strada al centro di possibili strategie di sviluppo basate sulla filiera corta che sostiene le economie agricole locali e sulla riduzione dei rifiuti alimentari perché i venditori di cibo di strada sanno bene come evitare lo spreco.
“Quello che non si sa” ha aggiunto Corvo “è che è possibile valorizzare il territorio tramite lo street food, valorizzando le tipicità locali. Slow Food non è solo saper vendere uno prodotto, quello che viene chiamato story telling, ma ragionare su cosa stai facendo, lo slow food non è metterci due ore a mangiare, non è quello! È la qualità che conta. Se tu pensi a quello che stai facendo, basta mezz’ora. Lo street food può essere un’esperienza formativa che fa maturare una consapevolezza diversa su come alimentarsi correttamente”.

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