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“Come non essere delusi da questa mossa della Commissione? L’indicazione di origine degli alimenti è un’informazione fondamentale: priviamo i consumatori del diritto di scelta”. Così Piero Sardo, presidente Fondazione Slow Food per la Biodiversità

“Come non essere delusi da questa mossa della Commissione? L’indicazione di origine degli alimenti è un’informazione fondamentale: priviamo i consumatori del diritto di scelta. Avremmo voluto più coraggio dall’Unione Europea e ci viene il sospetto che questo provvedimento abbia a che fare con le trattative segrete del Ttip. La verità è che non sappiamo quali accordi siano stati già presi, pertanto non sappiamo che cosa aspettarci”. Parole di Piero Sardo, presidente della Fondazione Slow Food per la Biodiversità Onlus, che commenta così i due rapporti Ue con i quali la Commissione dichiara “preferibile” optare per una scelta volontaria, invece di un obbligo (a livello comunitario) dell’indicazione di origine per quegli alimenti ancora fuori dalla legislazione vigente.

“E stiamo parlando di cibo quotidiano, alimenti comunissimi nella nostra dieta quali prodotti caseari, carni di cavallo e coniglio, pasta, passata di pomodoro, zucchero o riso. Slow Food ha risposto al deficit delle informazioni in etichetta con le etichette narranti con cui raccontiamo origine, metodo di produzione e qualità organolettiche dei prodotti dei Presìdi. Ne avremmo fatto a meno, ma i fatti ci portano a dover potenziare questo progetto”, prosegue Piero Sardo. I report pubblicati il 20 maggio dalla Commissione Europea sono due. In entrambi si conclude che i “benefici ricavati dai nuovi requisiti di indicazione obbligatoria non superano i costi. Pertanto le indicazioni volontarie sembrano essere la soluzione più adatta”.

Il primo rapporto, gestito dalla Direzione Generale Agricoltura della Commissione, esamina la possibilità di contrassegno obbligatorio di origine per i prodotti lattiero-caseari e quelle che vengono definite “carni minori” (coniglio, cavallo e cacciagione) rimaste fuori dalla legislazione europea in vigore. La Commissione giustifica così questa scelta: “considerate le abitudini di consumo e i potenziali costi dell’introduzione dell’obbligo dell’indicazione di origine in etichetta, per i prodotti caseari questa aggiunta potrebbe risultare più onerosa per alcuni più che per altri con un impatto “irregolare”. E mentre alcuni avrebbero costi maggiori di produzione, non è detto che i consumatori siano disposti a pagare di più per queste informazioni. Lo stesso discorso vale per le carni minori” si legge nel comunicato della Commissione. Nello studio allegato leggiamo che, stando a quanto dichiarato dalle aziende casearie inserite nella ricerca: “i costi di produzione potrebbero aumentare entro una forbice che va dall’8% al 45%”. Percentuale che colpirebbe i più piccoli e ubicati in zone marginali in quanto “potrebbero appoggiarsi a cascine diverse a volte addirittura in stati diversi”. Si chiede Sardo: “ma quanti casi del genere possiamo contare? E siamo sicuri che i consumatori non siano disposti a pagare un pochino di più per conoscere da dove arriva il cibo che si portano in famiglia?”.

Il secondo report, curato dalla Direzione Generale della Salute e della Sicurezza Alimentare, spiega Slow Food, analizza il bisogno dei consumatori di essere informati circa l’origine degli alimenti non trasformati, di quelli mono ingrediente o che hanno un ingrediente che rappresenta oltre il 50% dell’alimento. “Stiamo parlando di riso e pasta, ma anche succhi e conserve di pomodoro. Non nascondiamo stupore nel leggere le conclusioni della Direzione: i consumatori sono interessati a conoscere l’origine di questi alimenti, ma molto meno di cibi come carne, derivati della carne e prodotti lattiero caseari e non sembrano disposti a pagare di più per le informazioni aggiuntive. I costi superano dunque i benefici, pertanto la soluzione combinata di indicazione volontaria con gli obblighi vigenti è la soluzione migliore da adottare”.

“Pare che per arrivare a queste conclusioni - continua Slow Food - la Direzione Salute abbia consultato tutte le parti interessate: consumatori, operatori di settore (Food business operator - FBOs) e Stati Membri. Quello che non ci è affatto chiaro è a quale campione si faccia riferimento. Di quanti cittadini europei stiamo parlando? Abbiamo spulciato lo studio e non è stato semplice trovare il campione: si tratta di 5.250 cittadini europei in 15 Stati Membri (i cittadini dell’Unione sono 503.679.730). Tra l’altro al parere dei consumatori si aggiunge quello di: stake holder della filiera, organizzazioni di consumatori, stati membri, non meglio identificate autorità competenti ...”.

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