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Il business dell’agroalimentare italiano (che fattura 133 miliardi di euro all’anno) è un “affare di famiglie”: nel 67% delle imprese del settore, medie e di grandi dimensioni, la proprietà è sempre di tipo familiare. A dirlo l’Osservatorio “Aub”

Il business dell’agroalimentare italiano è un “affare di famiglie”, perché nel 67% delle imprese del settore, medie e di grandi dimensioni, il controllo della proprietà è sempre di tipo familiare. Zoccolo duro di un settore che, nel complesso, “fattura” 133 miliardi di euro con 1,3 milioni di occupato, seconda industria manifatturiera dopo quella metalmeccanica. A dirlo l’Osservatorio Aub (Aiadf - Associazione Italiana delle Aziende Familiari, Unicredit e Bocconi, www.aidaf.it), che ha concentrato l’attenzione proprio sulle imprese familiari dell’agroalimentare. Dall’indagine si registra una presenza dominante (68,8%) di aziende familiari con oltre 25 anni di età. Anzi, il capitale di tre aziende su quattro (78,9%) è ancora nelle mani della famiglia proprietaria e si riscontra la tendenza a tramandare la “ricetta” di padre in figlio: il 30% delle aziende è di prima generazione e il 6,8% ha superato la terza generazione. Il 76,8% delle aziende ha sempre un leader familiare al comando. La tendenza a salvaguardare il rispetto dei valori legati alla storia e alla tradizione si riflette anche nella composizione del consiglio di amministrazione, in larga misura presidiato da membri appartenenti alla famiglia. La stretta relazione tra famiglia e impresa non ha però impedito un’evoluzione della governance, tanto che le aziende dell’alimentare si sono orientate negli ultimi anni verso modelli di vertice più complessi: il 46,9% delle realtà risulta guidato, nell’ultimo anno, da un team di amministratori delegati (sul 33,7% di 10 anni fa) e l’11,4% da un amministratore unico (su l 20,4% di 10 anni prima).
Nel periodo di crisi economica l’industria alimentare ha poi mostrato dinamiche premianti rispetto all’economia del Paese, nonostante il fatto che, a partire dal 2010, i consumi alimentari abbiano cominciato a mostrare una notevole elasticità rispetto al reddito dei consumatori e si sia assistito a un cambiamento più profondo degli stili di consumo, sempre più orientati verso una spesa low cost. In questo contesto, un importante effetto di traino lo ha avuto l’export (+4,7% nel 2013), che è riuscito a bilanciare il calo dei consumi nazionali.
“Le aziende di famiglia consentono di ragionare su orizzonti di lungo periodo, senza doversi preoccupare sempre e soltanto di realizzare un profitto nel breve termine - ha sottolineato Paolo Barilla, vice presidente Barilla - guardando al lungo termine, anche nei momenti di difficoltà della congiuntura, consentono di non dover compromettere mai sugli elementi di successo di un’impresa: la qualità dei prodotti, l’etica e la condivisione con la comunità”.
"Dai risultati del focus dell’Osservatorio Aub - ha commentato invece Guido Corbetta, titolare della cattedra Aidaf-Ey di Strategia delle Aziende Familiari dell’Università Bocconi - emerge come la crisi della domanda interna imponga un cambiamento delle scelte strategiche anche nell’industria alimentare. Diventerà sempre più vitale per le aziende familiari dotarsi delle competenze manageriali e delle risorse finanziarie di lungo termine per accelerare i processi di acquisizione e di internazionalizzazione. La capacità di cogliere con tempestività le opportunità di crescita di un mercato sempre più globale e di realizzare progetti strategici di sviluppo all’estero rappresentano sempre più un vantaggio competitivo, in particolare per le aziende di questo comparto”.

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