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Chi beve il primo bicchiere in famiglia si ubriaca meno. La ricerca su alcol e giovani è dell’Osservatorio permanente Giovani e Alcol e dell’Associazione Laboratorio Adolescenza ed ha esaminato i comportamenti degli adolescenti di 5 città italiane

Chi beve il primo bicchiere in famiglia si ubriaca meno. La ricerca su alcol e giovani della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza, dall’Osservatorio permanente Giovani e Alcol e dalla Associazione Laboratorio Adolescenza, evidenzia come a fare la differenza, in un consumo sbagliato di alcol, sta dove si beve il “primo goccio”, se in famiglia o con gli amici. L’indagine, riportata sul Corriere della Sera è stata effettuata su un campione di 1.180 studenti di terza media residenti nelle cinque città metropolitane italiane (Roma, Milano, Napoli, Torino e Palermo).

Dai dati dell’indagine - presentata a Milano nell’ambito del convegno “Adolescenti e alcool nelle aree metropolitane, precocità, modelli di consumo, fattori influenti” - risulta, in particolare, che gli adolescenti che hanno avuto il primo contatto con l’alcol in ambito familiare (e in Italia sono la maggioranza) mantengono un rapporto con le sostanze alcoliche molto più moderato rispetto a chi l’esordio lo ha avuto in ambito amicale. E ciò indipendentemente dalla precocità o meno dell’esordio. Cifre alla mano, chi ha bevuto il primo “goccio” con mamma e papà (il 40% lo ha fatto dopo i 10 anni, il 38% tra i 6 e i 10 anni e l’8,3% a meno di sei anni) ha dichiarato, al momento della rilevazione, nel 25,7% dei casi di essere completamente astemio, nel 57% di essere un bevitore occasionale e nel 17,3% di bere “spesso” bevande alcoliche. Viceversa, tra chi ha iniziato con amici (coetanei o più grandi), il 12,3% non beve, il 49% è un bevitore occasionale e il 38,5% è un bevitore abituale.

L’effetto calmierante dell’esordio in famiglia, rispetto a quello incentivante dell’esordio tra pari, è ancora più evidente quando si passa ad analizzare gli eccessi e quindi l’esperienza dell’ubriacatura. Tra chi ha avuto l’esordio in famiglia il 13% si è ubriacato una volta, il 3,9% più di una volta; al 69% è capitato di ubriacarsi senza volere, mentre il 23% cercava l’esperienza. Sull’altro fronte a ubriacarsi una volta è stato il 17,8%, più di una volta il 12,8% e a cercare l’esperienza il 35,2%. “Depotenziare l’alcol dalla valenza trasgressiva - osserva Piernicola Garofalo, Presidente della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza - riducendolo ad una bevanda che, nei modi e nelle quantità opportune, può essere consumato in casa alla presenza dei genitori, è certamente un modo efficace perché non sia vissuto dagli adolescenti come la proibizione da violare e quindi indurli, come spesso accade, a misurare la propria “adultità” con la resistenza al bere. Per la stessa logica - aggiunge Garofalo - andrebbe però decisamente evitato anche l’assaggio in età precoce, sia pure simbolico, che ancora troppe famiglie propongono ai bambini, proprio per evitare che il bere venga interpretato come una sorta di rito iniziatico”.

Nonostante l’effetto protettivo che la famiglia può creare, l’indagine evidenzia che il condizionamento del gruppo dei pari al consumo di alcol è comunque forte, in particolare per quanto concerne l’abuso. La percentuale di chi ha dichiarato di essersi ubriacato più di una volta passa infatti dal 7,5% al 53,8% se gli amici del proprio gruppo di riferimento non hanno frequentazione con l’ubriacatura oppure se la quasi totalità del gruppo ha avuto esperienze di questo tipo. E per quanto concerne le differenze di genere sono le femmine a soffrire di più il condizionamento dei pari. Ne è prova che mentre la percentuale di “bevitori abituali” evidenzia uno scarto significativo tra maschi (22%) e femmine (14,3%), tra coloro che hanno già avuto ripetute esperienze di ubriacatura, evento che si verifica prevalentemente in gruppo, la distanza si riduce moltissimo (maschi 8,6%, femmine 7,0%). Il perché di questo fenomeno ce lo spiega Carlo Buzzi, sociologo dell’Università di Trento e direttore scientifico della ricerca: “Che nell’abuso le differenze comportamentali osservate tra maschi e femmine tendano quasi ad annullarsi dipende in parte dall’età del campione analizzato (12-14 anni), nella quale è molto probabile che le frequentazioni amicali delle femmine avvengano con adolescenti di qualche anno più adulti e, di conseguenza, con maggiore abitudine al bere. Incide però certamente anche il desiderio/necessità delle ragazze di dimostrare, all’interno del gruppo, la propria emancipazione, specie di fronte a comportamenti, come il bere, dai quali il sottrarsi può essere fonte di irrisione e emarginazione”.

Tra le motivazioni per le quali un adolescente può essere indotto a bere, le due ragioni che dalla ricerca emergono su tutte riguardano la dimensione espressiva: da una parte - ulteriore conferma di quanto si è già evidenziato - si beve per “adeguarsi al gruppo” (47,6%), dall’altra per “divertirsi” (47,5%). A Poca distanza emerge però la dimensione esistenziale e l’alcol viene indicato quale strumento di coping, ovvero come strategia per fronteggiare le avversità: il 41,0% sostiene infatti che il consumo si giustifica per “dimenticare i problemi”. Seguono, in un ideale ranking di elementi che favoriscono il consumo, tre motivazioni che appartengono in modo tipico alla cultura adolescenziale: lo “sballo” (34,2%), la “trasgressione” (29,3%) ed anche il “darsi delle arie” (26,2%) come manifestazione di ricercato prestigio nel gruppo. “La rappresentazione che la ricerca fa del comportamento degli adolescenti nei confronti delle bevande alcoliche, anche nei suoi aspetti critici - osserva Enrico Tempesta, Presidente del laboratorio scientifico dell’Osservatorio Permanente sui Giovani e l’Alcool - richiede non solo un’attenzione responsabile al fenomeno, ma soprattutto la necessità di un approfondimento capace di comprendere la complessità e l’articolazione delle dinamiche sottostanti. E’ indispensabile evitare giudizi e soluzioni semplicistiche e sbrigative, anche perché stiamo parlando di adolescenti per i quali le dinamiche ed i comportamenti sono condizionati dalla contraddittorietà propria di questa fase di crescita. Pertanto - conclude Tempesta - anche le eccedenze (ubriacature) vanno approfondite con un’analisi non solo quantitativa, ma anche qualitativa per poter distinguere meglio quelle che sono espressioni temporanee e transitorie di tale contraddittorietà (e che spesso si esprimono anche con altri comportamenti a rischio quali bullismo, violenze, sfide sportive a rischio, etc.), da quelle che invece possono configurarsi come sintomo di una evoluzione rischiosa associata ad una vulnerabilità individuale”.

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