02-Planeta_manchette_175x100
Allegrini 2024

L’EXPORT DELL’UE (E DELL’ITALIA) TIRA. MA I PROBLEMI NON MANCANO: DALLE BARRIERE DOGANALI “NON TARIFFARIE” ALLA FRAMMENTAZIONE DELLE IMPRESE DEL BELPAESE E NON SOLO. COSÌ IMPRENDITORI ED ISTITUZIONI ITALIANE ED EUROPEE AL “CIBUS GLOBAL FORUM”

Non Solo Vino
L’export agroalimentare dell’Unione Europea tira ma non mancano i problemi

L’export agroalimentare dell’Unione Europea funziona, ma non è tutto oro quello che luccica. “Il settore vale più di 1.000 miliardi di euro, coinvolge 290.000 imprese e oltre 4 milioni di posti di lavoro, il saldo dell’export è in attivo di 13 miliardi. Ma dal 2002, con l’Ue a 15, la quota di mercato mondiale era del 20,5%, oggi con l’Ue a 27 siamo al 16,5%”. Così a WineNews Mella Frewen, dg Food Drink Europe, la più grande “lobby” europea dell’industria alimentare, che riunisce 25 federazioni nazionali dell’Unione, 25 organizzazioni di settore e 18 grandi imprese con fatturato oltre 1 miliardo di euro (per l’Italia Barilla e Ferrero). “Su questo dato pesa la crescente concorrenza di Paesi come il Brasile, per esempio, ma non solo. Quello che frena l’ulteriore sviluppo dell’export europeo sono soprattutto le barriere doganali, e non tanto quelle tariffarie, che spesso i negoziati in sede Wto hanno ridotto sensibilmente. A pesare sono soprattutto le barriere non tariffarie, quelle che per esempio tanti Paesi applicano puntando su questioni sanitarie e fitosanitarie, e in questo forse sarebbe più efficace se l’Europea facesse negoziati bilaterali con i Paesi target”. Un po’ come è successo con gli Stati Uniti, che di recente hanno tolto il blocco alle importazioni di salumi dal Nord Italia, “notizia positivissima - ha commentato il presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo, Paolo de Castro - e grazie alla quale ci aspettiamo che già nel 2013 arrivino 2 miliardi di euro in più per l’Italia. E poi, finalmente siamo riusciti ad avviare negoziati bilaterali di libero scambio con gli Usa, e visto che gli scambi Usa-Ue rappresentano quasi il 25% del commercio mondiale, ci aspettiamo di migliorare ancora ”. Ma l’Italia, per De Castro, che è stato anche Ministro delle Politiche Agricole, deve affrontare anche tanti altri problemi, di cui alcuni strutturali come la frammentazione del tessuto imprenditoriale agroalimentare. “Le imprese medie e grandi (con più di 50 addetti) rappresentano appena l’1,5%. Eppure, sono queste ultime a trainare l’export, dato che sono responsabili del 72% delle vendite di prodotti alimentari italiani oltre frontiera. Se si guarda alla Germania, tanto per citare un nostro diretto competitor, si scopre invece che le imprese medie e grandi pesano per il 9% sul totale e presentano, in termini assoluti, un numero maggiore di aziende di grandi dimensioni (con più di 250 addetti): ben 534 contro le nostre 119. Un dato che si riflette anche in una minor propensione all’export delle imprese alimentari italiane (20%) rispetto a quella delle aziende tedesche (28%) o francesi (25%)”. Come migliorare la situazione? Con l’aggregazione, ovviamente, ma anche con un maggior supporto istituzionale. Mission che spetta alla nuova per Ice - Agenzia la promozione all’estero e l’internazionalizzazione delle imprese italiane , come ha spiegato il presidente Riccardo Monti: “le risorse ad oggi non sono moltissime, ma ci aspettiamo che raddoppino nei prossimi anni, anche se realisticamente non torneremo mai, probabilmente ai livelli pre crisi, del 2007. Ma abbiamo già in campo 40 iniziative promozionali, tra partecipazione a fiere e non solo, e in futuro ci impegneremo anche a valorizzare singole aziende nei diversi mercati. E, a livello sistemico, stiamo lavorando per una maggiore sinergia con il Ministero delle Politiche Agricole, ma anche con le varie Camere di Commercio, per arrivare ad una base di risorse promozionali sui 50 milioni di euro, che attivi iniziative per 180-200 milioni”.
Ma per le imprese del Belpaese, ci sono anche questioni irrisolte, e spesso sottovalutate. La mancanza di catene di gdo italiane all’estero è un fatto, in parte superato, visto che comunque l’appeal del prodotto made in Italy è un’occasione di business anche per catene straniere, come dimostra l’esperienza di Auchan. “Un’esperienza che abbiamo iniziato due anni fa, e che ci sta dando grandi risultati - ha spiegato il direttore export di Auchan Italia Alessandro Montanari - perché riusciamo veicolare l’appeal del prodotto italiano con la capillarità della presenza della catena francese in tutto il mondo. Ma è un errore dare per scontato che ovunque ci sia la cultura del prodotto italiano ovunque. Per esempio, abbiamo avuto richieste clamorose di pesto dall’Ucraina, ma abbiamo scoperto che veniva utilizzato non per condire la pasta, ma per colazione con le fette biscottate. Un aneddoto che serve a capire quanto ci sia ancora da lavora per conoscere i mercati prima. Per l’Italia, per esempio, la tipicità e la varietà sono valori associati alla qualità. In oriente, invece, qualità è una parola che fa rima con grandi numeri e standardizzazione”.
Ma se ci sono esperienze come quella di Auchan che la tipicità e l’origine, come con il progetto “I sapori delle Regioni”, la valorizzano, questo spesso non avviene.

“Anzi, capita che negli scaffali stranieri spesso il concetto di origine e di territorialità del prodotto italiano venga annullato - spiega Luigi Rubinelli, direttore di RetailWatch.it - anche in Paesi vicini come Germania, primo partner commerciale per l’Italia dell’agroalimentare, o Gran Bretagna. E questo è un aspetto fondamentale, visto che dalle ricerche risulta che il 51% delle scelte di acquisto avviene proprio davanti allo scaffale. È un aspetto sul quale non possono lavorare le singole aziende, soprattutto quelle piccole, ma su cui dovrebbero investire, ad esempio, i vari consorzi di tutela. E un altro aspetto sui cui l’Italia, devo dirlo, è totalmente impreparata, è l’evoluzione tecnologica: dal commercio elettronico all’estero, dove la visibilità dell’origine del prodotto italiano è praticamente inesistente, ad altre forme. In Inghilterra Tesco sta sviluppando una sorta di supermercato on line “3d”, dove saranno riproposti in modo digitale gli scaffali, e la chiarezza del packaging sarà ancora più fondamentale di quanto non lo sia ora. In Francia c’è chi sta studiando degli occhiali hi-tech, come quelli di Google, i che permetteranno di “leggere” più informazioni in etichetta di quanto non avvenga oggi tramite qr code e simili. È una cosa che può non piacere, ma che presto diventerà realtà, perché la tecnologia ormai ci ha invaso, e le imprese devono farci i conti”.
E al futuro della gdo pensa il leader italiano del settore, Coop, che ha investito 13 milioni di euro per presentare all’Expo 2015, in collaborazione con il Mit (Massachusetts Institute of Technology) il supermercato del futuro, che “sarà pieno di tecnologie per favorire una maggiore socialità, un maggior rapporto dei consumatori tra loro e con i produttori - ha detto il presidente del comitato di gestione di Coop, Vincenzo Tassinari - e dove pian piano scomparirà la verticalità degli scaffali, che per la socializzazione è una barriera fisica”.
“Ma in ogni caso, le imprese italiane dell’agroalimentare devono guardare al futuro con coraggio, perché siamo amati nel mondo, e le possibilità da cogliere sono ancora tantissime”, come ha ricordato Guido Barilla, alla guida di Barilla, uno dei marchi più affermati nel mondo del food made in Italy, che ha appena festeggiato i 100 anni di vita.

Focus - L’intervento del presidente della Commissione Agricoltura del Parlamento Europeo Paolo de Castro
“Con 57.000 imprese, 438.000 addetti e 127 miliardi di fatturato, l’alimentare - assieme al metalmeccanico - rappresenta il principale comparto dell’industria manifatturiera italiana. Si tratta quindi un settore portante dell’economia nazionale, i cui prodotti sono venduti e apprezzati in tutto il mondo, tanto che nel 2012 l’export dei soli prodotti trasformati ha superato i 26 miliardi di euro, per una crescita pari al 74% se raffrontata a dieci anni prima.

Con questo aumento - pur in un periodo di forte recessione - l’export alimentare diventa una delle principali voci nelle esportazioni dei prodotti manifatturieri, subito dopo il metalmeccanico, il tessile e i mezzi di trasporto.
La rilevanza dell’industria alimentare non è però solamente di tipo socio-economico, ma assume una valenza che va anche al di là di questi aspetti. Alla luce della forte integrazione che caratterizza le imprese industriali, il settore rappresenta un importante fattore di valorizzazione dell’agricoltura, tanto da costituire quel “sistema agroalimentare” che oggi è in grado di soddisfare i bisogni dei cittadini italiani ed europei nonché di creare ricchezza per le diverse aree del paese. Una filiera che, considerata dalla produzione alla distribuzione, pesa per l’8% del Pil e incide per il 13% sull’occupazione complessiva.
Rendere le imprese alimentari più competitive significa far diventare sostenibile nel tempo questa doppia garanzia di “food security” e di sviluppo territoriale; una garanzia che, alla luce degli scenari evolutivi che si prospettano per i prossimi decenni, non sembra essere così scontata o quantomeno raggiungibile agli stessi costi del passato.
Uno scenario che si presenta con diversi risvolti. A fronte di un mercato nazionale che vede, per ragioni congiunturali (perdita di reddito delle famiglie consumatrici) e strutturali (invecchiamento della popolazione) diminuire progressivamente i consumi alimentari, se ne contrappone uno internazionale che mostra rilevanti segnali di sviluppo in virtù di un maggior benessere che coinvolge un numero sempre più alto di consumatori, in particolare delle grandi economie emergenti (Bric, Emirati, Sud-Est asiatico, ecc.). Questi nuovi mercati stanno cambiando i loro modelli di consumo, andando verso una progressiva occidentalizzazione della dieta alimentare: nel 2011, per la prima volta nella storia, la domanda dei Bric ha superato quella degli Usa (in termini di import delle merci) e le stime al 2020 indicano la Cina come primo mercato mondiale per valore dei consumi alimentari, con circa 4.000 miliardi di dollari spesi per cibo e bevande (dagli attuali 800 miliardi di dollari).
Tuttavia, intraprendere questi percorsi significa per molte imprese affrontare sfide spesso al di sopra delle proprie possibilità, soprattutto alla luce di ritardi competitivi e strutturali che connotano le aziende italiane i cui effetti sono maggiormente evidenti in un’arena concorrenziale di tipo globale. La minor propensione all’export delle imprese alimentari italiane (20%) rispetto a quella delle aziende tedesche (28%) o francesi (25%) è indice di tali divari di competitività.
Si pensi infatti, a tale proposito, che la compagine imprenditoriale del settore vede una stragrande maggioranza di piccole imprese con meno di 9 addetti, riguardanti l’87% del totale. Al contrario, quelle medie e grandi (e cioè con più di 50 addetti) rappresentano appena l’1,5%. Eppure, sono queste ultime a trainare l’export, dato che sono responsabili del 72% delle vendite di prodotti alimentari italiani oltre frontiera.
Se si guarda alla Germania, tanto per citare un nostro diretto competitor, si scopre invece che le imprese medie e grandi pesano per il 9% sul totale e presentano - in termini assoluti - un numero maggiore di aziende di grandi dimensioni (con più di 250 addetti): ben 534 contro le nostre 119.
Da questo divario dimensionale (che poi si traduce in competitivo) si comprende anche perché l’export alimentare tedesco è praticamente doppio di quello italiano (in valore), con evidenti differenze anche per i prodotti trasformati e tipici del “made in Italy” come formaggi, salumi, caffè e cioccolata.
Surclassiamo invece i tedeschi sul lato del posizionamento di prezzo: i prezzi medi all’export dei nostri prodotti sono nettamente superiori a quelli spuntati dalle imprese tedesche nei mercati internazionali, indice di un maggior livello qualitativo e di un valore aggiunto determinato anche da una percezione più elevata nei consumatori di tutto il mondo.
I percorsi di sviluppo per le imprese alimentari italiane sono quindi segnati e conducono tutti verso una maggior internazionalizzazione, nella consapevolezza che la tenuta e la crescita dell’alimentare italiano si traduce anche nella sostenibilità dell’intera filiera e, di conseguenza, nella valorizzazione delle produzioni agricole nazionali.
Al fine di ridurre tali differenze e supportare le imprese alimentari italiane nei propri percorsi di sviluppo risulta necessario individuare interventi di politica industriale. Una politica idonea alle esigenze di crescita delle imprese e in linea con quella che è l’effettiva specificità e rilevanza economica del settore. Interventi di politica industriale che fino ad oggi non hanno trovato idonea collocazione nelle agende dei Governi che si sono succeduti e che spesso hanno confuso le esigenze di sviluppo delle imprese industriali con quelle agricole. E che anche se nella stragrande maggioranza dei casi queste non sono in contrasto tra di loro, hanno sottovalutato l’effettivo ruolo di traino che l’industria può svolgere per la crescita dell’intera filiera agroalimentare e dei diversi territori italiani.
Alla luce di queste considerazioni, i principali interventi di una politica per l’industria alimentare italiana a fini di un sostegno all’internazionalizzazione delle imprese dovrebbe riguardare:
l’impegno delle istituzioni in sede europea o mediante accordi bilaterali ad abbattere le barriere sanitarie o non tariffarie che limitano l’ingresso di molti prodotti alimentari in mercati dinamici e in piena crescita economica (come Russia, Cina, Brasile, India…);
la defiscalizzazione degli investimenti promozionali all’estero e delle attività di analisi e studio dei nuovi mercati (ricerche sui consumi, individuazione operatori commerciali, ecc.);
la riorganizzazione (appena intrapresa) del sistema delle politiche e degli strumenti di promozione all’estero, attraverso un maggior coordinamento delle iniziative e delle risorse dedicate da parte dei diversi enti (nazionali e regionali) preposti;
la formazione degli operatori commerciali per il mercato target (e dei consumatori) sulle peculiarità e specificità dei prodotti alimentari italiani, anche attraverso una maggior diffusione della cultura alimentare italiana.
l’agevolazione burocratica e fiscale alla costituzione di consorzi e reti tra imprese per l’export;
il sostegno ad un presidio diretto delle imprese sul mercato target, mediante lo sviluppo di piattaforme logistiche e strutture commerciali comuni;
una maggior defiscalizzazione delle operazioni di fusioni e acquisizioni al fine di favorire la crescita dimensionale delle imprese.

Copyright © 2000/2024


Contatti: info@winenews.it
Seguici anche su Twitter: @WineNewsIt
Seguici anche su Facebook: @winenewsit


Questo articolo è tratto dall'archivio di WineNews - Tutti i diritti riservati - Copyright © 2000/2024