
20 Aprile 2016, ore 13:30
Il vigneto è l’affare d’oro del millennio ... Valori alle stelle per un ettaro di Brunello... C’era una volta il sogno del “podere in Chianti”. Per definizione, un affare che rende bene. Sogno dei nostri nonni, tanto da diventare detto popolare. O profezia, che alla fine si è avverata. Perché è il vino di pregio il vero business di questo inizio millennio. Che sia il solito effetto di trascinamento da smanie per vip, visto che sono tanti i politici, i personaggi della finanza e i ricconi a essersi lanciati a investire sui grappoli di qualità? Non proprio, a sentire i numeri e i dati. Punto primo. Rispetto a cinquant’anni fa, le terre d’origine dei grandi vini conoscono rialzi di valore, in percentuale, anche a quattro cifre. Uno studio lanciato da Winenews.it, il sito più dinamico di informazioni sul vino, offre risultati sorprendenti. Dove si scopre che dal 1966 a oggi l’incremento di valore di un ettaro di vigneto a Brunello è stato del 2.474%, quello dell’Amarone del 1.357%; per i grandi piemontesi si parla di prezzi triplicati (+257 e +206%), mentre il Chianti Classico va un po’ oltre il raddoppio, con +129%. Nei dettagli: nel 1966 un ettaro di terreno vitato e/o vitabile (fabbricati annessi) di Brunello di Montalcino valeva 1,8 milioni di vecchie lire, pari a 15337 euro attuali, e oggi vale 400.000 euro. Un ettaro di vigneto di Amarone della Valpolicella valeva 3,5 milioni di lire, pari a 34.320 euro, e oggi vale 500.000 euro; un ettaro di vigneto a Barbaresco valeva 10 milioni di lire, pari a 98.060 euro, e oggi vale 350.000 curo; un ettaro di Barolo valeva 15 milioni di lire, pari a 147.089 euro, ed oggi vale 400.000 euro; un ettaro di Chianti Classico valeva 8 milioni di lire, pari a 78.447 euro, e oggi vale 180.000 euro. Scorrendo lo studio, winenews.it spiega anche i retroscena di certe evoluzioni: non esistevano i diritti d’impianto, che fanno lievitare la domanda; la storicizzazione di molte denominazioni era debole, mentre Amarone e Brunello, come esempi, hanno conosciuto impennate negli ultimi vent’anni. Evoluzioni disomogenee, dunque, come sembrano spiegare anche i dati di Inea, l’Istituto Nazionale di Economia Agraria: tra il 2009 e il 2014, le performance migliori vengono da terroir a sorpresa, in particolare da Sud. Ecco le province di Lecce (piana di Copertino +122%, zona di Galluccio +80%) e di Brindisi (+51%) guidare questa classifica seguite da zone come il Taburno in Campania e le colline di Chiti che condividono un +33% con l’area del Lago di Caldaro in Alto Adige. Per contro, in picchiata sarebbero i valori registrati per le zone di Carmignano in Toscana (-32%) e di Montefalco in Umbria (-41%), rimasta a secco di diritti d’impianto. Che il vino sia il business del millennio lo conferma il Censis. Una ricerca commissionata da Ornellaie, uno dei ne urine più amati, oltre a ricordare che in 10 anni l’export dei vini italiani è cresciuto in quantità del 23% e in valore dell’84,3%, rivela che il mondo vitivinicolo è al secondo posto tra i possibili investimenti, attrattivi degli italiani, con il 30,6%: il vino tira più dell’informatica (19,8%), delle multinazionali (9,8%) e perfino del made in Italy tradizionale (29%). Chi vuole investire si rifugia sempre più nel vino di pregio, come conferma la britannica Liv-Ex, “bibbia” della quotazione di etichette: nel 2015, la “fine wine Italy 100”, con il +0,76, ha performato meglio del Ftse London Stock Exchange (-4,5%), di Wall Street (-0,73%), dell’oro (-5,4%) e del rame (-27,9%). Il problema è che oro e titoli azionari non si bevono, il vino invece sì.
13 Aprile 2016, ore 18:00
Il Vinitaly ricorda l'enologo Giacomo Tachis ... “Dell’enologia colta, tecnicamente impeccabile, intellettualmente determinata, fondata su un’eccezionale sensibilità”. Potrebbe esser questo l’incipit di un “testamento”, con i lasciti al mondo del vino di uno dei più grandi enologi italiani: Giacomo Tachis, più che l’uomo del “Rinascimento” del vino italiano, uno “scienziato”, che, in punta di piedi, con la sua professionalità, e passione per la conoscenza del passato, ha gettato le basi di ciò che si sarebbe compiuto, e compreso, solo più tardi. Cinquant’anni sono passati dal riconoscimento delle Denominazioni di Origine ai vini italiani e dalla nascita di Vinitaly, la fiera internazionale di riferimento del settore (Verona, 10-13 aprile; www.vinitaly.com), e sarà la prima volta senza Tachis, ma non senza il suo spirito. Se l’enologia colta è, senza dubbio, la prima innovazione che Giacomo Tachis ha introdotto in Italia, alla base del suo pensiero, che WineNews, uno dei siti più cliccati dagli amanti del buon bere, ripercorre, e che Vinitaly ha raccontato nel calice con alcuni dei suoi più celebri “Super Italians”, i vini italiani “fuori dagli schemi” in “Il Vino Italiano ricorda Giacomo Tachis: un grande uomo, tante grandi storie”, la degustazione a cura di Vinitaly International Academy, con la figlia Ilaria Tachis, produttrice nel Chianti Classico, oggi a Verona, ci sono anche intuizioni che hanno cambiato il corso dell’enologia italiana, e che rappresentano l’eredità tecnica di uno dei suoi “padri fondatori”. “I 50 anni di Vinitaly non potevano essere celebrati compiutamente senza i vini che hanno fatto la storia del vino italiano creati da Giacomo Tachis - ha detto alla degustazione il direttore generale di Veronafiere Giovanni Mantovani - è un grande onore la presenza della figlia Ilaria, con il suo racconto di aspetti della vita del padre non solo professionali, ma anche più intimi. Come ultimo evento promosso da Vinitaly con la International Academy, alla presenza di numerose personalità straniere - prosegue Mantovani - non poteva che esser questo il modo migliore per presentarci al mondo”. Giacomo Tachis nel suo percorso professionale e umano ha sviluppato uno spirito rinascimentale perché non ha mai anteposto la tecnica all’anima della terra, piuttosto è rimasto con i piedi ben piazzati a terra, nella consapevolezza della forza della natura, con una visione dell’enologia non finalistica, ma olistica: produrre vino come una parte del Creato. Ha condotto e compiuto la sua opera decenni prima del cosiddetto “Rinascimento” del vino italiano - attribuibile ai successi ottenuti dal vino italiano nella seconda parte degli anni Ottanta sui mercati e in un’immagine innovativa dell’Italia evocatrice di qualità - già in atto, forse in modo sotterraneo, fin dall’inizio della sua avventura con Antinori. Il primo Sassicaia firmato Tachis per Incisa della Rocchetta è la vendemmia 1968, il primo Solaia esce nel 1978, e il Tignanello è uscito con l’annata 1971. Dalla Toscana, la sua patria d’adozione, fino a molti dei territori dell’Italia enoica, tanto diversi tra loro, ma con un unico minimo comune denominatore, rappresentato dall’attrazione profonda quasi chimica con questi territori e con il materiale umano con cui interloquiva. In Sardegna, nel 1988 per far nascere il Turriga di Argiolas e prima ancora per dare alla luce il Terre Brune di Santadi. Quindi, la Sicilia dove prepara il campo all’esplosione enoica dell’isola, e il Trentino, dove con Guerrieri Gonzaga crea il San Leonardo, e poi le Marche con la nascita del Pelago di Umani Ronchi. Alla base vi sono scelte che, a distanza di anni, restano tra i contributi più preziosi al successo dei nostri vini, metodologie ormai “codificate”, capaci di far dialogare la tradizione italiana con quella francese, come Tachis dialogava con il suo mentore Emile Peynaud, padre dell’enologia moderna di Bordeaux. Dall’uso sistematico della fermentazione malolattica, per ottenere vini dai tannini morbidi e dotati di souplesse, all’invecchiamento in barrique, come vaso vinario in cui la micro-ossidazione è perfetta ed è data dall’equilibrio tra quantità di vino e superficie di contatto con il legno, dalla considerazione della catena terpenica per l’estrazione massima delle componenti aromatiche, che raccomandava doversi fare con le criomacerazioni, alla frequenza della luce per attivare la fotosintesi, su cui fondava la supremazia del vino italiano su quello francese, Tachis ha “risintonizzato” l’Italia enoica con i tempi. Ma, soprattutto, ogni suo vino è stato concepito da una attenta rilettura del territorio nel passato e nel presente e con la consapevolezza che la tradizione non debba essere sinonimo di immobilismo, ma riletta in chiave moderna. Solo così la tradizione stessa diventa il vero strumento dell’innovazione. Enologo certo, ma Tachis è stato senz’altro qualcosa di più. Un umanista, che sapeva citare Archestrato di Gela, poeta della Magna Grecia, come fondatore della gastronomia. Un po’ alchimista e un po’ scienziato era non solo un grande conoscitore della chimica e della biologia, ma anche un curioso viaggiatore attraverso i sentieri della storia e della letteratura. L’eredità più preziosa che Tachis ha lasciato all’enologia non è quindi uno strumento tecnico, un’innovativa formula chimica, ma un nuovo sguardo, figlio di occhi diversi, arricchito anche di cultura classica, di cui è una summa la sua biblioteca (donata alla Fondazione Chianti Banca e che sarà a breve a disposizione di tutti gli studiosi, e parte del catalogo della Biblioteca di San Casciano Val di Pesa): un patrimonio di oltre 3.500 volumi e documenti, accanto ai suoi manoscritti. Giacomo che si definiva “mescolatore di vini”, ci ha insegnato che lo studio principale dell’enologia dovrebbe fondarsi sull’“interpretazione umana dell’uva”, e, oseremmo dire di quella Terra, che da poco, lo ha pacificamente accolto.
13 Aprile 2016, ore 17:29
Vinitaly, 50 anni di Doc. La prima volta senza Giacomo Tachis ... “Dell’enologia colta, tecnicamente impeccabile, intellettualmente determinata, fondata su un’eccezionale sensibilità”. Potrebbe esser questo l’incipit di un “testamento”, con i lasciti al mondo del vino di uno dei più grandi enologi italiani: Giacomo Tachis, più che l’uomo del “Rinascimento” del vino italiano, uno “scienziato”, che, in puntadi piedi, con la sua professionalità, e passione per la conoscenza del passato, ha gettato le basi di ciò che si sarebbe compiuto, e compreso, solo più tardi. Cinquant’anni sono passati dal riconoscimento delle Denominazioni di Origine ai vini italiani e dalla nascita di Vinitaly, la fiera internazionale di riferimento del settore, e sarà la prima volta senza Tachis, ma non senza il suo spirito. Se l’enologia colta è, senza dubbio, la prima innovazione che Giacomo Tachis ha introdotto in Italia,alla base del suo pensiero, che WineNews, uno dei siti più cliccati dagli amanti del buon bere, ripercorre, e che Vinitaly ha raccontato nel calice con alcuni dei suoi più celebri “SuperItalians”, i vini italiani “fuori dagli schemi” (in “Il Vino Italiano ricorda Giacomo Tachis: un grande uomo, tante grandi storie”, la degustazione a cura di Vinitaly International Academy, con la figlia Ilaria Tachis, produttrice nel Chianti Classico, oggi a Verona), ci sono anche intuizioni che hanno cambiato il corso dell’enologia italiana, e che rappresentano l’eredità tecnica di uno dei suoi “padri fondatori”. “I 50 anni di Vinitaly non potevano essere celebrati compiutamente senza i vini che hanno fatto la storia del vino italiano creati da Giacomo Tachis - ha detto alla degustazione il direttore generale di Veronafiere Giovanni Montovani - è un grande onore la presenza della figlia Ilaria, con il suo racconto di aspetti della vita del padre non solo professionali, ma anche più intimi. Come ultimo evento promosso da Vinitaly con la International Academy, alla presenza di numerose personalità straniere - prosegue Mantovani - non poteva che esser questo il modo migliore per presentarci al mondo”. Giacomo Tachis nel suo percorso professionale e umano ha sviluppato uno spirito rinascimentale perché non ha mai antepostola tecnica all’anima della terra, piuttosto è rimasto con i piedi ben piazzati a terra, nella consapevolezza della forza della natura, con una visione dell’enologia non finalistica, ma olistica: produrre vino come una parte del Creato. Ha condotto e compiuto la sua opera decenni prima del cosiddetto “Rinascimento” del vino italiano - attribuibile ai successi ottenuti dal vino italiano nella seconda parte degli anni Ottanta sui mercati e in un’immagine innovativa dell’Italia evocatrice di qualità - già in atto, forse in modo sotterraneo, fin dall’inizio della sua avventura con Antinori. Il primo Sassicaia firmato Tachis per Incisa della Rocchetta è la vendemmia 1968, il primo Solaia esce nel 1978, e il Tignanello è uscito con l’annata 1971. Dalla Toscana, la sua patria d’adozione, fino a molti dei territori dell’Italia enoica, tanto diversi tra loro, ma con un unico minimo comune denominatore, rappresentato dall’attrazione profonda quasi chimica con questi territori e con il materiale umano con cui interloquiva. In Sardegna, nel 1988 per far nascere il Turriga di Argiolas e prima ancora per dare alla luce il Terre Brune di Santadi. Quindi, la Sicilia dove prepara il campo all’esplosione enoica dell’isola, e il Trentino, dove con Guerrieri Gonzaga crea il San Leonardo, e poi le Marche con la nascita del Pelago di Umani Ronchi. Alla base vi sono scelte che, a distanza di anni, restano trai contributi più preziosi al successo dei nostri vini,metodologie ormai “codificate”, capaci di far dialogare la tradizione italiana con quella francese, come Tachis dialogava con il suo mentore Emile Peynaud, padre dell’enologia moderna di Bordeaux. Dall’uso sistematico della fermentazione malolattica, per ottenere vini dai tannini morbidi e dotati di souplesse,all’invecchiamento in barrique, come vaso vinario in cui la micro-ossidazione è perfetta ed è data dall’equilibrio tra quantità di vino e superficie di contatto con il legno, dalla considerazione della catena terpenica per l’estrazione massima delle componenti aromatiche, che raccomandava doversi fare con le criomacerazioni, alla frequenza della luce per attivare la fotosintesi, su cui fondava la supremazia del vino italiano su quello francese, Tachis ha “risintonizzato” l’Italia enoica con i tempi. Ma, soprattutto, ogni suo vino è stato concepito da una attenta rilettura del territorio nel passato e nel presente e con la consapevolezza che la tradizione non debba essere sinonimo di immobilismo, ma riletta in chiave moderna. Solo così la tradizione stessa diventa il vero strumento dell’innovazione. Enologo certo, ma Tachis è stato senz’altro qualcosa di più. Un umanista, che sapeva citare Archestrato di Gela, poeta della Magna Grecia, come fondatore della gastronomia. Un po’ alchimista e un po’ scienziato era non solo un grande conoscitore della chimica e della biologia, ma anche un curioso viaggiatore attraverso i sentieri della storia e della letteratura. L’eredità più preziosa che Tachis ha lasciato all’enologia non è quindi uno strumento tecnico, un’innovativa formula chimica, ma un nuovo sguardo, figlio di occhi diversi, arricchito anche di cultura classica, di cui è una summa la sua biblioteca (donata alla Fondazione Chianti Banca e che sarà a breve a disposizione di tutti gli studiosi, e parte del catalogo della Biblioteca di San Casciano Val di Pesa): un patrimonio di oltre 3.500 volumi e documenti, accanto ai suoi manoscritti. Giacomo che si definiva “mescolatore di vini”, ci ha insegnato che lo studio principale dell’enologia dovrebbe fondarsi sull’“interpretazione umana dell’uva”, e, oseremmo dire di quella Terra, che da poco, lo ha pacificamente accolto.
13 Aprile 2016, ore 17:22
Vinitaly: fiera celebra 50 anni prime Doc italiane La prima volta senza Tachis, il tributo a grande enologo ... Cinquant’anni sono passati dal riconoscimento delle Denominazioni di Origine ai vini italiani e dalla nascita di Vinitaly, la fiera internazionale di riferimento del settore che si chiude oggi a Veronafiere e sarà la prima volta senza Tachis, ma non senza il suo spirito. Se l’enologia colta è, senza dubbio, la prima innovazione che Giacomo Tachis ha introdotto in Italia, alla base del suo pensiero, che WineNews, uno dei siti più cliccati dagli amanti del buon bere, ripercorre, e che Vinitaly ha raccontato nel calice con alcuni dei suoi più celebri “Super Italians”, i vini italiani “fuori dagli schemi” in “Il Vino Italiano ricorda Giacomo Tachis: un grande uomo, tante grandi storie”, la degustazione a cura di Vinitaly International Academy, con la figlia Ilaria Tachis, produttrice nel Chianti Classico, oggi a Verona, ci sono anche intuizioni che hanno cambiato il corso dell’enologia italiana, e che rappresentano l’eredità tecnica di uno dei suoi “padri fondatori”. “I 50 anni di Vinitaly non potevano essere celebrati compiutamente senza i vini che hanno fatto la storia del vino italiano creati da Giacomo Tachis - ha detto alla degustazione il direttore generale di Veronafiere Giovanni Mantovani - è un grande onore la presenza della figlia Ilaria, con il suo racconto di aspetti della vita del padre non solo professionali, ma anche più intimi. Come ultimo evento promosso da Vinitaly con la International Academy, alla presenza di numerose personalità straniere - prosegue Mantovani - non poteva che esser questo il modo migliore per presentarci al mondo”. Giacomo Tachis ha condotto e compiuto la sua opera decenni prima del cosiddetto “Rinascimento” del vino italiano - attribuibile ai successi ottenuti dal vino italiano nella seconda parte degli anni Ottanta sui mercati e in un’immagine innovativa dell’Italia evocatrice di qualità - già in atto, forse in modo sotterraneo, fin dall’inizio della sua avventura con Antinori. Il primo Sassicaia firmato Tachis per Incisa della Rocchetta è la vendemmia 1968, il primo Solaia esce nel 1978, e il Tignanello è uscito con l’annata 1971. Dalla Toscana, la sua patria d’adozione, fino a molti dei territori dell’Italia enoica, tanto diversi tra loro, ma con un unico minimo comune denominatore, rappresentato dall’attrazione profonda quasi chimica con questi territori e con il materiale umano con cui interloquiva. In Sardegna, nel 1988 per far nascere il Turriga di Argiolas e prima ancora per dare alla luce il Terre Brune di Santadi. Quindi, la Sicilia dove prepara il campo all’esplosione enoica dell’isola, e il Trentino, dove con Guerrieri Gonzaga crea il San Leonardo, e poi le Marche con la nascita del Pelago di Umani Ronchi. Alla base vi sono scelte che, a distanza di anni, restano tra i contributi più preziosi al successo dei nostri vini, metodologie ormai “codificate”, capaci di far dialogare la tradizione italiana con quella francese, come Tachis dialogava con il suo mentore Emile Peynaud, padre dell’enologia moderna di Bordeaux. Dall’uso sistematico della fermentazione malolattica, per ottenere vini dai tannini morbidi e dotati di souplesse, all’invecchiamento in barrique, Tachis ha “risintonizzato” l’Italia enoica con i tempi. Ma, soprattutto, ogni suo vino è stato concepito da una attenta rilettura del territorio nel passato e nel presente e con la consapevolezza che la tradizione non debba essere sinonimo di immobilismo, ma riletta in chiave moderna.
13 Aprile 2016, ore 16:28
Servizio di Lucia Buffo da Vinitaly con intervista al direttore di WineNews Alessandro Regoli su vino e internet
13 Aprile 2016, ore 16:27
Pillola del giorno da Vinitaly by Winenews con il direttore Alessandro Regoli sulle tendenze più significative di Vinitaly
13 Aprile 2016, ore 11:29
Parafrasando Miles Davis si può dire che il vino e la vita sono una questione di stile. Questo spiega perché il Franciacorta sia la bottiglia glamour del Vinitaly edizione numero 50. È un vino che fa stile ed è un vino che ha stile. Ci si è molto interrogati in questa mega-rassegna veronese dove si è scoperto che almeno tra le vigne l’Italia va (anche se potrebbe fare meglio) sul futuro. Il futuro climatico, il futuro economico, il futuro del vino che si vende on lime (peccato che resistano le barriere doganali per esempio negli Usa - alla faccia dei trattati TTIP -,in Canada, in tutti i paesi che distribuiscono il vino attraverso i monopoli statali) e si venderà, dicono i guru, sempre più sul web. Ebbene, guardando allo spazio espositivo di Francia- corta si direbbe che il futuro è adesso: strapieno di giovani, le degustazioni che si sono susseguite a ritmo di una all’ora perennemente sold out. Eppure non è cosa da poco la “casa del Franciacorta”:
sono quindici appartamenti confortevoli messi in fila (1500 metri quadrati) dove vengono ospitate 46 cantine (altre 21 sono sparse nel (liversi l)adiglioni) per raccontare di vini che hanno conosciuto una crescita esponenziale e di un territorio vocato alla vitivinicoltura almeno dal ‘400, ma che è stato rimesso a coltura appena una cinquantina d’anni. Correva l’anno 1961 quando uscivano i primi “pinot dl Franciacorta”. È diventato un caso mondiale e i numeri parlano chiaro: oggi gli ettari coltivati sono 2800, le bottiglie prodotte 16,5 milioni e all’estero ne va circa il 15% con giapponesi, americani e svizzeri che considerano questi “vini di seta” oggetti di culto e veicolo di sani desideri. E a queste vanno unite quelle dei vini fermi: i Curtefranca. Il futuro è esportare di più e in questo Vittorio Moretti - neopresidente del Consorzio, ma pioniere del Franciacorta di massima qualità - è deciso. “Oggi abbiamo produzione sufficiente per allargare I mercati e grazie anche alla convinta collaborazione della regione Lombardia mettiamo in campo un forte sostegno all’export attraverso una diffusione della conoscenza di Franciacorta: come vini e come territori”. Ma - sorpresa delle sorprese - è in Italia che cresce la domanda di Franciacorta. E ancora più sorprendente è che siano i giovani a desiderarlo. Qui a Vinitaly si ragiona di futuro. E l’interrogativo più pressante è: i nostri ragazzi continueranno a coltivare il sano piacere del vino? Una ricerca - interessante assai condotta da WineNews, il sito specializzato in tutto quanto fa vino - rivela che in America (il nostro principale cliente) a trainare la domanda sono i cosiddetti millenials che si informano (principalmente sul web), sperimentano. I nostri millenials, la cosiddetta generazione Y, che stanno tra 120 e 135 anni sembrano più distratti, con una fruizione del vino più episodica. Gran parte dei vini che consumano è sotto forma di spritz o come aperitivo, tranne che in un caso: Franciacorta.
Sono questi i vini considerati glamour, che però non fanno moda, sono i vini che piacciono per il loro stile e che mettono insieme le generazioni in forza del loro perlage finissimo, con nouances che sanno di frutta gialla, di fiori bianchi, carezzevoli eppur decisi, naturalmente capaci di raccontare il benessere di una terra d’incanto come quella che sta attorno al Lago d’Iseo.
propriamente una questione di stile. “Sì ne sono convinta
- dice Francesca Moretti che insieme al padre guida Bellavista e Contadi Castaldi, le due cantine franciacortine di Terra Mo- retti che ha appendici di gran pregio in Toscana con Petra e La Badiola - ed è per questo che abbiamo legato il vino all’arte, alla musica. Noi in Bellavista abbiamo cambiato l’immagine dei vini usando colori giovani, ma è un processo che ha coinvolto tutti i produttori di Franciacorta”. Le fa eco Maurizio Zanella - patron di Ca’ del Bosco ed ex presidente del Consorzio - che considera decisivo aver dato “dei nostri vini un’immagine dinamica senza in nulla rinunciare alla classe”. A questi stilemi si sono richiamati tutti: da Berlucchi a Arcipelago Muratori da Monterossa a Ferghettina, da Mosnel a le Marchesine. E anche i grandi classici come Uberti, come Fratelli Berlucchi come Ricci Curbastro hanno conferito al complesso Franciacorta autorevolezza delle radici in un contesto contemporaneo. Per non
dire di uno come Emanuele Rabotti che con Monterossa continua a inventarsi proposte come il ritiro di una bottiglia vecchia in cambio di una nuova. “Ma una cosa - ti- vendica orgoglioso Vittorio Moretti - non è cambiata: è l’incessante ricerca della qualità e il rigorosissimo rispetto dei disciplinati. Noi, è vero, vendiamo uno stile, ma prima di tutto proponiamo grandi vini, anzi vini unici”. Che però hanno uno spettro di fruibilità molto ampio. Le declinazioni di Franciacorta (dai Saten ai dosaggio zero) accompagnate dalla giusta rivendicazione di un metodo esclusivo di produzione (rifermentazione in bottiglia), il sapiente mix di Chardonnay, Pinot Nero e Pinot Bianco, hanno consentito ai Franciacorta di segmentare l’offerta aumentando la domanda. “In questo - spiega Emanuele Rabotti - sta la ragione del nostro successo: aver proposto vini che vanno da bottiglie esclusive a bottiglie di più immediato approccio ma tutte con il medesimo stile”. Certo il boom degli spumanti italiani ha aiutato anche i Franciacorta, ma con una differenza: il prezzo. Quello medio non è distante a quello medio dello Champagne. E anche questa è una questione di stile.
Carlo Cambi
13 Aprile 2016, ore 10:29
Folla di buyer al Vinitaly: riparte anche il mercato interno. Fernanda Roggero intervista il direttore di WineNews Alessandro Regoli
12 Aprile 2016, ore 11:40
Pillola del giorno da Vinitaly by Winenews con il direttore Alessandro Regoli su Jack Ma di Alibaba: MarcoPolo ha introdotto Cina in Italia ma nessuno ha introdotto Italia in Cina
12 Aprile 2016, ore 11:38
in diretta da Vinitaly (motor home Caprai) il direttore di Winenews Alessandro Regoli, insieme a Gianfranco Vissani e Carlo Cambi, parla di vino italiano in Cina, a confronto con la Francia
12 Aprile 2016, ore 11:35
TGR TOSCANA edizione ore 14
In diretta da Vinitaly con Pietro Di Lazzaro il direttore di Winenews Alessandro Regoli su rivalutazione vigneti in 50 anni e vino & Cina
11 Aprile 2016, ore 17:09
Sentiment positivo cantine Italia, vendite I trimestre +8% Sondaggio WineNews, torna a sorridere anche mercato interno ... Un primo trimestre 2016 che regala indicazioni positive e ottimismo al vino italiano sul fronte delle vendite e dei fatturati, tanto all’export che in Italia. A dirlo le risposte di 15 tra le realtà enologiche più importanti d’Italia per storia, immagine e per volume d’affari (1,7 miliardi di euro, il 15% del fatturato complessivo del vino italiano): per il 64% delle cantine vendite a +8%, con il 45% che dichiara un “sentiment” positivo, il 36% che “sente” abbastanza positivo il resto dell’anno e il 19% che, addirittura, scommette su un 2016 molto positivo. Ecco la fotografia, realizzata da WineNews, che tasta il polso ad uno dei settori più dinamici e positivi anche in questi tempi dell’economia italiana Se l’esportazione delle etichette tricolori continua "a tirare" anche in questo primo scorcio di 2016, con le aziende campione che indicano nel 63% dei casi una crescita a +10% (sullo stesso periodo del 2015), confermando la tendenza generale rilevata nel bilancio finale dell’anno appena trascorso (con il superamento della cifra simbolo dei 5,4 miliardi di euro di export, +5,4% sul 2014), torna parzialmente a sorridere anche il mercato interno, da più parti forse troppo frettolosamente liquidato come ormai stagnante: il 46% delle aziende ritrova una crescita delle vendite entro i confini nazionali, che si attesta su un confortante +4,5% sul 2015. Il mercato italiano con tutte le sue debolezze, in termini soprattutto di consumi in discesa, resta uno sbocco commerciale importante non solo numericamente (oltre 20 milioni di ettolitri) ma anche per il suo ruolo di “vetrina”, proprio quando l’obbiettivo strategico principale sono i mercati internazionali. Il sondaggio fotografa anche qualche segnale in controtendenza: sul dato “aggregato” delle vendite c’è un 18% di aziende che segnala una stabilità sul 2015 del proprio andamento commerciale, e un 18% che, invece, denuncia una flessione, quantificabile in un -7,5%; sul fronte dell’export, il 23% delle cantine sondate indica una sostanziale stabilità con le transazioni ferme sui livelli 2015. Nel mercato domestico, invece, è il 28% che “mantiene le posizioni”, mentre un 9% segnala una riduzione delle vendite, nell’ordine del 7%. In ogni caso, il successo tendenziale sul piano delle vendite ha, naturalmente, anche motivazioni aziendali ben precise. Le cantine sondate dimostrano di investire risorse finanziarie e umane in modo sempre più strategico, orientandosi soprattutto sui mercati più “sicuri” e su quelli che maggiormente possono garantire un valore aggiunto ulteriormente spendibile. Le cantine italiane, nella maggior parte dei casi, hanno “diversificato” le proprie vendite su un portafoglio di mercati, a volte, molto esteso e, probabilmente, sta proprio nella capacità di modulare i propri sforzi molto del successo del recente passato. Ci sono mercati nei quali spendersi con maggior vigore per situazioni contingenti e altri perché garantiscono visibilità, altri ancora perché potenzialmente in crescita futura. Ecco che allora gli imprenditori del vino del Belpaese nel 72% hanno concentrato i propri sforzi sul mercato europeo, scegliendo come Paesi target soprattutto Germania, Svizzera e Gran Bretagna, nel 70% su quello italiano, nel 54% sul mercato americano e nel 36% sui mercati orientali. Gli imprenditori del vino italiano sondati da WineNews guardano al futuro nel medio-lungo periodo individuando le possibili criticità che il loro business può incontrare. Il problema più complesso resta, per il 55%, quello della debolezza dei consumi, seguito, al 36%, dalle incognite economiche che, pur in un clima di rinnovata fiducia, restano ben presenti; per il 20% delle aziende, rimangono ancora irrisolte le conseguenze di un possibile mancato assorbimento della crisi globale ancora in atto. Emerge anche la preoccupazione dell’aumento dei costi di gestione aziendale per il 10% delle cantine sondate. A questo si unisce poi la preoccupazione causata dal cambio non favorevole (20%). Infine, rimane viva, per il 15%, il timore di una perdita di forza della competitività sul piano internazionale.
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Culla di grandi vini come il Brunello di Montalcino, e di realtà emergenti come ...
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San Leonardo 2013, Torgiano Rosso Riserva 2012 Lungarotti, Montiano 2015 Falesco...
28 Dicembre 2017, ore 11:02
Ancora bolle, possibilmente autoctone, più vini di nicchia e bio … il tutto unit...
06 Aprile 2018, ore 17:24
Grandi e piccole cantine, etichette-mito e vini quotidiani, vecchie annate e alt...
04 Gennaio 2018, ore 15:52
Un regista unico che coordini le diverse realtà vitivinicole italiane. Ecco l’ob...
22 Gennaio 2018, ore 17:03
Nelle cantine di Montalcino non si dormono sogni tranquilli: dopo Cupano, furto ...
Analisi, ricerche e trend del mercato del vino a cura di WineNews
Sondaggio WineNews - È in Piemonte la cantina “ideale” nell'immaginario dei wine lover (seguito da Toscana e Veneto). E non è un vino ma un vitigno il loro preferito: Nebbiolo. Il sogno curioso? Lavorare per Antinori, Gaja o Masi
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Sondaggio WineNews - Una “Cité du Vin” come a Bordeaux anche in Italia? È il sogno di 8 appassionati su 10, che la vorrebbero nella famosa e centrale Toscana (48%). Una strada per migliorare l'offerta di enoturismo in Italia (98%)
di Emma Lucherini