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La Nazione/Il Giorno/Il Resto del Carlino

Il vigneto è l’affare d’oro del millennio ... Valori alle stelle per un ettaro di Brunello... C’era una volta il sogno del “podere in Chianti”. Per definizione, un affare che rende bene. Sogno dei nostri nonni, tanto da diventare detto popolare. O profezia, che alla fine si è avverata. Perché è il vino di pregio il vero business di questo inizio millennio. Che sia il solito effetto di trascinamento da smanie per vip, visto che sono tanti i politici, i personaggi della finanza e i ricconi a essersi lanciati a investire sui grappoli di qualità? Non proprio, a sentire i numeri e i dati. Punto primo. Rispetto a cinquant’anni fa, le terre d’origine dei grandi vini conoscono rialzi di valore, in percentuale, anche a quattro cifre. Uno studio lanciato da Winenews.it, il sito più dinamico di informazioni sul vino, offre risultati sorprendenti. Dove si scopre che dal 1966 a oggi l’incremento di valore di un ettaro di vigneto a Brunello è stato del 2.474%, quello dell’Amarone del 1.357%; per i grandi piemontesi si parla di prezzi triplicati (+257 e +206%), mentre il Chianti Classico va un po’ oltre il raddoppio, con +129%. Nei dettagli: nel 1966 un ettaro di terreno vitato e/o vitabile (fabbricati annessi) di Brunello di Montalcino valeva 1,8 milioni di vecchie lire, pari a 15337 euro attuali, e oggi vale 400.000 euro. Un ettaro di vigneto di Amarone della Valpolicella valeva 3,5 milioni di lire, pari a 34.320 euro, e oggi vale 500.000 euro; un ettaro di vigneto a Barbaresco valeva 10 milioni di lire, pari a 98.060 euro, e oggi vale 350.000 curo; un ettaro di Barolo valeva 15 milioni di lire, pari a 147.089 euro, ed oggi vale 400.000 euro; un ettaro di Chianti Classico valeva 8 milioni di lire, pari a 78.447 euro, e oggi vale 180.000 euro. Scorrendo lo studio, winenews.it spiega anche i retroscena di certe evoluzioni: non esistevano i diritti d’impianto, che fanno lievitare la domanda; la storicizzazione di molte denominazioni era debole, mentre Amarone e Brunello, come esempi, hanno conosciuto impennate negli ultimi vent’anni. Evoluzioni disomogenee, dunque, come sembrano spiegare anche i dati di Inea, l’Istituto Nazionale di Economia Agraria: tra il 2009 e il 2014, le performance migliori vengono da terroir a sorpresa, in particolare da Sud. Ecco le province di Lecce (piana di Copertino +122%, zona di Galluccio +80%) e di Brindisi (+51%) guidare questa classifica seguite da zone come il Taburno in Campania e le colline di Chiti che condividono un +33% con l’area del Lago di Caldaro in Alto Adige. Per contro, in picchiata sarebbero i valori registrati per le zone di Carmignano in Toscana (-32%) e di Montefalco in Umbria (-41%), rimasta a secco di diritti d’impianto. Che il vino sia il business del millennio lo conferma il Censis. Una ricerca commissionata da Ornellaie, uno dei ne urine più amati, oltre a ricordare che in 10 anni l’export dei vini italiani è cresciuto in quantità del 23% e in valore dell’84,3%, rivela che il mondo vitivinicolo è al secondo posto tra i possibili investimenti, attrattivi degli italiani, con il 30,6%: il vino tira più dell’informatica (19,8%), delle multinazionali (9,8%) e perfino del made in Italy tradizionale (29%). Chi vuole investire si rifugia sempre più nel vino di pregio, come conferma la britannica Liv-Ex, “bibbia” della quotazione di etichette: nel 2015, la “fine wine Italy 100”, con il +0,76, ha performato meglio del Ftse London Stock Exchange (-4,5%), di Wall Street (-0,73%), dell’oro (-5,4%) e del rame (-27,9%). Il problema è che oro e titoli azionari non si bevono, il vino invece sì.

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